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Sto riscoprendo, in questo periodo così pieno di impegni e novità sul fronte lavorativo, il piacere di scrivere quelle che io mi ostino a chiamare poesie. Al contrario dei romanzi – per una serie di motivi – e dei saggi – per un’altra serie di motivi – questi componimenti sono figli di stati d’animo del momento e ne nascono quasi di getto, senza bisogno di dover trovare tante parole.

Le immagini che si aprono nella mia testa sono molteplici. Sono coinvolti sentimenti che, probabilmente, nemmeno so di poter provare. Sono, soprattutto, piccoli passi nel continuo percorso verso l’accettazione del sé e l’affermazione del proprio io. Io inteso non in senso egocentrico, ma di essere umano con le proprie caratteristiche, le proprie debolezze, le proprie forze, i propri dubbi, i propri dolori.

In un certo qual senso, ogni poesia (e dagli!) può essere paragonata a una fotografia. La mano incerta del fotografo dilettante che sta prendendo dimestichezza con la propria attrezzatura, che arranca per scoprire tutti i segreti della luce, dell’esposizione, delle distanze. E che, talvolta, per pura fortuna imbrocca la foto della vita. Ecco: mi piacerebbe imbroccare la foto della vita, il componimento che scateni in chi lo legge – faccio lo sborone (come diceva un noto comico): in chiunque lo legga – una reazione univoca: «Vorrei averla scritta io!»

Sì, sono un illuso. Sì, ne sono consapevole. Sì, è una cosa che non va bene, soprattutto alla mia età, ma… sì, a me va bene così!

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