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Si allontanò da solo, mentre lei e io ci avvicinammo agli altri. Sembrava proprio che non avesse capito la frase precedente. Meglio così. Non avrei saputo cosa inventarmi. Girammo per tutto il giorno come dei matti, fermandoci solamente il tempo necessario a pranzare. Non ci fu molto tempo per parlare, anche perché, onestamente, avrei avuto ben poco da dire. Nella mia testa i pensieri si confondevano, togliendomi ogni coraggio di parlare. Ero sì deciso a farle sapere tutto, ma ancora mi mancavano le parole per farlo. O forse, proprio solo il coraggio. Arrivammo alla sera stanchi morti. Avremmo dovuto andare a letto presto. Il mattino dopo, infatti, saremmo ripartiti alla volta di casa. Le stanze dovevano essere lasciate libere per le dieci, così come da disposizioni del proprietario dell’albergo. Non ci curammo minimamente né della stanchezza, né delle disposizioni. Andammo nella 107 verso le ventidue e trenta, una buona mezz’ora dopo il giro di ronda del professore. Dopo poco che eravamo insieme venne quasi naturale alle due coppie cercare un po’ di intimità, così da poter parlare più liberamente, da potersi scambiare qualche tenerezza. Nonostante ci fosse qualche rischio, Simona e Fabio abbandonarono la camera per recarsi nella 106, mentre ai due più sfortunati, cioè ad Elena e a me, toccò l’esilio sul balcone. Era una serata splendida. Si potevano vedere tutte le stelle del firmamento. Non sto esagerando. Era veramente uno dei cieli più belli che abbia mai visto. Restammo in silenzio per qualche minuto, assorti in quella visione. Sarebbe stato il momento ideale per parlarle, uno di quei momenti da romanzetto rosa. Mi girai verso di lei. Il suo sguardo era rivolto verso l’alto. Sembrava che fosse isolata dal mondo, poi, all’improvviso, si girò verso di me, cogliendomi di sorpresa.

«Senti…»

«Sì?»

«Niente…»

Si stava divertendo a scimmiottarmi o veramente non aveva avuto il coraggio di dirmi ciò che aveva in mente? Non volli domandarglielo. Mi limitai a sorridere. Cinse con le braccia le gambe rannicchiate, poi poggiò la testa sulle ginocchia. Alzai nuovamente gli occhi al cielo e vidi una stella cadente. Stupenda. Luminosissima. Non la chiamai. Volli che quella stella portasse con sé solo il mio desiderio.

«Vorrei passare il resto dei miei giorni con Elena al mio fianco, come marito e moglie.»

Ora so che ciò che avevo chiesto era irrealizzabile. Ora lo so. Mi avvicinai a lei. Appoggiai la schiena al sottile pezzo di muro che separava la ringhiera in pietra dai cardini della portafinestra. Le presi delicatamente un braccio e le feci cenno di avvicinarsi. Si spostò senza alzarsi in piedi, giungendo al mio fianco. Le poggiai una mano sulla testa, poi feci in modo che la appoggiasse sulla mia spalla, come sul pullman. Si lasciò guidare senza dire né fare nulla. Socchiuse gli occhi, così come feci anche io. Quasi mi addormentai. Doveva aver capito tutto. Doveva. O, forse, era un modo come un altro per nascondere qualche sua debolezza, un suo momento no. No! Mi convinsi che aveva capito tutto e che era solo questione di tempo. Io avevo già valutato i miei sentimenti, forse lei doveva ancora farlo. Forse era stata presa di sorpresa dal mio comportamento, dalla mia foga nel difenderla da Carlo, dalle mie frasi a volte calcolate, a volte un po’ meno.

«Devi solo aspettare.»

Non feci altro che ripetermi mentalmente questa frase. La abbracciai come avevo fatto il pomeriggio precedente. Era riuscita ad assopirsi anche in quella scomoda posizione. Non ne poteva veramente più. Sempre dinamica, attiva. Sempre a dimostrare di non essere mai stanca. Stava cedendo anche lei alle fatiche di quei giorni. Me ne sarei accorto ancor di più durante il viaggio di ritorno. Restammo in quella posizione per quasi un paio d’ore. Verso l’una, finalmente, qualcuno si ricordò di venirci a chiamare. Macché “finalmente”. Avrei dormito lì per tutta la notte. Avrei voluto che quei momenti potessero durare per sempre. Era come se fossi riuscito nel mio intento. La sentivo “mia” come mai mi era accaduto. Rientrai con la convinzione che non ci sarebbe stato il bisogno di chiederle niente. Mi avrebbe fatto capire lei quale sarebbe stato il momento migliore. Non dovevo forzare la mano e poi, in cuor mio, ero rimasto col profondo convincimento che la mia stella cadente mi avrebbe aiutato. Quanto ero stupido. Quanto sono stupido. Essere convinto che la realizzazione dei propri desideri dipenda da detriti spaziali che si infiammano venendo a contatto con l’atmosfera del pianeta sul quale viviamo. Ero veramente un idiota! Le fortune degli uomini non dipendono dalle stelle. Un grande piano ci coinvolge tutti, ci vuole tutti compartecipi. Allora perché mi sento tanto male per ciò che non ho saputo evitare? Perché da qualche mese non so fare altro che torturarmi e tormentarmi? Fa anche questo parte di quel piano, oppure io sono una particella impazzita, una scheggia che vaga e passa da parte a parte gli ostacoli che le si parano davanti?

«Sveglia!»

Glielo sussurrai in un orecchio. Alzò lentamente la testa, guardando la città davanti a sé con gli occhi di chi dormiva senza sognare.

«Che ore sono?»

«È l’una passata. Gli altri si sono degnati di venirci a chiamare! Non oso pensare a quello che hanno fatto in nostra assenza!»

«Scemo!»

Sorrideva. Sembrava rilassata, nonostante il velo di stanchezza che copriva il suo viso. Ci alzammo. O, meglio, lei si alzò. «E tu? Non dirmi che vuoi dormire lì!»

«No, cara! È solo che per non farti svegliare sono rimasto in una posizione scomodissima per le ultime due ore o giù di lì e la mia povera gamba destra si è addormentata!»

«Beh, io vado! Buona notte!»

«Aspetta solo che riesca ad alzarmi e poi la vedi, la buona notte!»

Rientrò e chiuse la finestra. Dopo pochi attimi, però, la riaprì e uscì per aiutarmi a rialzarmi. Ripresi lentamente la piena funzionalità della gamba, giusto in tempo per una bella rivincita della partita di due sere prima a scala quaranta. Stesse coppie, diverso risultato. Si vedeva che Elena e io eravamo rilassati. Stracciammo gli altri quattro in ogni partita, anche grazie ad un po’ di fortuna. Vendetta era stata fatta. Ci battemmo un cinque come nei telefilm americani.

«Contando cento lire a punto, ci dovete l’equivalente di una cascina!»

«Esagerata! Va bene anche un appartamento da centocinquanta metri quadri in centro!»

Ridemmo tutti di gusto. Erano ormai le tre passate e sarebbe stato meglio chiudere lì la notte brava. Passammo dal balcone, per evitare rumori molesti nel corridoio. Fui l’ultimo a saltare di là. Ero veramente distrutto, ma avevo riacquistato un po’ di quella leggerezza interiore che tutte le preoccupazioni e i pensieri di quei giorni mi avevano tolto. Andai in bagno un momento, prima di andare a letto. Mi spalmai ben bene la faccia di pomata, in maniera tale da cercare un ulteriore miglioramento alla mia ancora un po’ alterata fisionomia. Sarebbe stato impossibile tenere i miei all’oscuro di ciò che era accaduto, ma intanto ci avrebbe pensato il professore a spiegare il tutto. Non feci fatica ad addormentarmi, mentre una fatica enorme fu il risveglio, dopo neppure quattro ore dal momento nel quale mi ero coricato. Non ebbi neppure la forza di sognare. Il mattino dopo fu all’insegna della smobilitazione. Lasciai quasi malvolentieri quella stanza che tante peripezie aveva visto. Quella stanza dove, come venni a sapere dopo, Simona e Fabio erano diventati un po’ più adulti. Li ho persi di vista, ma so che sono insieme ancora adesso. Frequentano l’università in una città lontana, dove hanno un appartamento tutto e solo per loro. È un po’ come se fossero sposati. Non avrei fantasia nel dire che provo per loro una grande invidia, quindi dirò che sono molto felice che le cose vadano loro bene. Ho barattato la poca fantasia con l’ipocrisia, ma non me ne importa più niente. Sono sfinito. È da qualche giorno, ormai, che non dormo. Avrò tempo fra poco, non appena sarò riuscito a svuotarmi la testa dai ricordi. Ci trovammo nel corridoio, bagagli alla mano, la stessa espressione dipinta sul volto di ciascuno di noi.

«Vi vedo proprio bene!»

«Taci, va! Sembra che voi tre arriviate direttamente da un film horror: “Il ritorno dei morti viventi”!»

«Scherza, scherza! Aspetta di essere sul pullman e poi vedremo!»

«Mamma mia, che paura!»

Scoppiammo a ridere tutti e sei come dei deficienti. Lasciammo le borse di fianco alle porte di quelle che fino a pochi minuti prima erano state le “nostre” stanze e scendemmo nel salone per la colazione.

«Ma vi siete presi a pugni anche voi?»

«Eh, sì, prof.! Erano gelosi del mio bel faccino e hanno deciso di rifarsi i lineamenti anche loro!»

«Ma guarda te in che stato! E tutti con gli occhiali da sole sul naso! A tavola! Va solo bene che questa gita sia finita. Se fosse durata un solo giorno di più sarei diventato pazzo! Pazzo!»

Si allontanò sorridendo. Ci sembrò che si fosse avvicinato molto di più a noi, ma dal giorno dopo sarebbe ridiventato solamente il nostro professore di matematica. Strano come cambino le cose da un giorno all’altro, da un ambiente all’altro. Sembra quasi che, lontani da casa, gli schemi saltino e tutto diventi più semplice, o più bello, o più intrigante. Forse più possibile. Man mano che ci si riavvicina a quello che è il mondo di tutti i giorni, alle proprie abitudini, sembra quasi di perdere qualcosa, di lasciare qualcosa per strada, di immolarla sull’altare della normalità. Partimmo da Firenze una mezz’oretta dopo aver terminato la colazione, giusto il tempo necessario per caricare armi e bagagli. Il clima, sull’autobus, era molto più disteso, molto più “soft” che all’andata. Avevamo avuto modo di conoscerci meglio tra di noi, di convivere, anche se la parola è un po’ grossa, per quei cinque giorni. Sembrava quasi di fare parte tutti di una medesima classe, di aver lasciato gli screzi, le diversità, in quell’albergo. Forse sto esagerando. Forse quell’alone che ci avvolgeva era solo stanchezza. Forse il passare degli anni e degli avvenimenti mi ha offuscato del tutto la mente. Chissà? Ci eravamo sistemati più o meno negli stessi posti occupati all’andata. Fabio e Simona di fianco a noi, Gianni e Benedetta subito dietro. Non facemmo molto vita di comunità. Simona e Fabio dormirono un po’, l’una appoggiata all’altro; gli altri due, invece, parlarono sottovoce per tutto il tempo, le facce molto più distese rispetto al momento di partire. Tutti e quattro portavano a casa qualcosa di più di un buon ricordo. Il consolidamento di un’unione e la nascita di un’altra. Io, oltre ai miei lividi e al male alla faccia, per tacer del resto del corpo, mi portavo dietro la serena convinzione che avrei potuto farcela. Anzi… che ce l’avrei fatta sicuramente. Avrei tanto voluto parlare con lei, ma era impegnatissima con il libro che ci aveva donato suor Marina. Sembrava quasi volerlo divorare, tanta era la passione con la quale lo sfogliava. Mi limitai a restare girato verso di lei. La conoscevo bene. Assorta com’era nelle sue faccende, non se ne sarebbe mai accorta. Pensai molto, in quel primo tragitto di strada che ci portò ad un autogrill molto più grande di quello dell’andata. Pensai a tutto quello che era successo, ma soprattutto a quello che sarebbe potuto succedere di lì a poco. O, meglio, a quello che avrei voluto fosse successo di lì a poco. Non so cosa accadde, cosa mi passò per la testa. Ebbi come un brivido, un senso di inquietudine. Una sensazione brutta, comunque. Avevo chiuso per un momento gli occhi, li riaprii di scatto. Se ne accorse anche lei. Dovevo aver fatto un movimento veramente brusco, per riuscire a distrarla.

«Che c’è?», domandò appoggiando il libro, aperto, su una gamba.

«Niente, niente!»

«Niente? Con quella faccia? Non me la racconti mica tanto giusta, tu! Non è la prima volta che cerchi di nascondermi qualcosa, in questi ultimi tempi.»

«Ma no! Non sarei mai capace di nasconderti qualcosa!»

«Sarà, ma mi pare che io e te avessimo ancora un discorsetto in sospeso per una bugia che mi hai raccontato una di queste sere!»

«Non ricordo! E poi parla piano! Se ci sentisse il prof. passeremmo sicuramente qualche guaio! Ricordati che deve ancora parlare con i nostri genitori della bella cosa che è successa e non mi sembra il caso di aggravare la situazione!»

«D’accordo, ma sappi che quel discorso io me lo ricordo molto bene e, prima o poi, lo finiremo! Sembra quasi che non ti fidi più di me! Sei proprio strano!»

Rimasi in silenzio per qualche momento.

«E dimmi: potrebbe allontanarci?»

«Che cosa?»

«Il fatto che tu mi trovi strano!»

«Ma no! È solo che vorrei capirti un po’ di più! Sono sempre stata abituata a sapere tutto di te e il fatto che tu possa nascondermi qualcosa mi fa stare male. Anzi, mi manda decisamente in bestia!»

Questa volta si era tradita lei. Quella frase rese le mie speranze ancora più forti, più accese.

«Non ti preoccupare! Se qualcosa dovesse angosciarmi, se dovessi avere qualunque tipo di problema tu sarai la prima persona con la quale parlerò, promesso! Non dimenticare che siamo fratelli di sangue!»

Mi guardò e il suo viso si aprì ad un sorriso sincero, bellissimo. Era da tanto tempo che quella vecchia storia, quel piccolo pezzo del nostro mondo, non veniva più fuori. Mi fissò per alcuni secondi negli occhi, poi si girò e riprese la lettura, appoggiandosi a me. Avrei potuto essere euforico, ma quella pessima sensazione, simile a quella che prende al mattino dopo aver avuto un incubo troppo verosimile, non mi aveva abbandonato. Non parlammo più fino al momento della sosta all’autogrill. Scendemmo per ultimi, come all’andata.

© Roberto Grenna – Riproduzione vietata

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