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Ben vero che ieri ho chiesto consiglio sull’opportunità di procedere nella stesura di questa storia, ma gli elementi che ho fornito sono veramente pochi. Ecco, quindi, che riporto anche il secondo capitolo di questa storia. Buona lettura!

Nubi nere

Il sonno fu particolarmente agitato e ricco di spunti onirici. Su tutti, ben nitida, l’immagine di quella lapide senza foto, dalla quale, lentamente ma inesorabilmente, sgorgavano gocce di sangue denso, scuro, quasi raggrumato.

Si svegliò di soprassalto allorché, in sogno, gli apparve una sua vecchia conoscenza: Sandovàl.

«No! No! Non è possibile!», urlò aprendo gli occhi e sollevando il busto di scatto. Ansimava. Quasi peggio rispetto a quando era rientrato in casa.

Si alzò, tenendosi con una mano al lavabo, e si lavò nuovamente la faccia, quasi in maniera meccanica, come poco prima di addormentarsi. Quanto era passato? Dieci minuti? Un’ora? Un giorno?

Si spostò in cucina, dove l’orologio segnava le dodici e dieci. Fuori era chiaro, quindi doveva aver dormito circa tre ore.

«Certo che se cominciamo così», disse tra sé e sé, «questa colonna sonora non vedrà mai la luce!»

Prese un coltellaccio dal cassetto nel quale erano riposte le posate e si tagliò due belle fette di pane. Le farcì con la metà del prosciutto che aveva acquistato, recuperò un bicchiere d’acqua del rubinetto e si mise a tavola, senza nemmeno apparecchiare, la sceneggiatura del film davanti a sé.

“Andiamo avanti a leggere, per trovare qualche spunto.”, pensò.

Riprese la lettura da dove l’aveva lasciata quel mattino, mangiando il panino a piccoli morsi.

Interno. Giorno. Luce naturale. Alla tavola imbandita mangiano in silenzio otto persone. A capo tavola, il paffuto signore con i baffi, che distribuisce sorridendo grosse porzioni di carne bollita ai commensali, che ringraziano tutti allo stesso modo, quasi cantilenando: ‘Danke, Vatter Denke’. Il commensale seduto all’altro capo del tavolo rispetto a Denke domanda: ‘Ma dove hai trovato questa carne così buona?’. L’uomo, sempre sorridendo, risponde: ‘Non posso rivelartelo: è un segreto!’. Esterno. Giorno. Piazzale della chiesa del paese. Primo piano di Denke, di profilo, che si allarga e mostra la bara che sta portando, insieme ad altre tre persone, sulla spalla. Rintocchi di campane a morto. MUSICA DA FUNERALE.”

“Musica da funerale? Andiamo bene! E chissà cosa cazzo suonavano in Slesia, nel millenovecentonove! Mi toccherà inventarmi qualcosa. D’altro canto, mica mi hanno detto di essere aderente al tempo nel quale si svolge l’azione, ma solo alla trama.”, pensò, sollevando lo sguardo dalla sceneggiatura e levando gli occhi al soffitto.

Il suo sguardo fu catturato da una macchia che vide, proprio a fianco del lampadario, che con la sua sagoma ne copriva più di metà: «Ma guarda! Non mi ero accorto di quella macchia. Fammi un po’ vedere!», disse, alzandosi dalla sedia, appoggiando ciò che restava del panino e spostandosi lateralmente.

Scrutò con attenzione il soffitto, poi prese una sedia e la posizionò immediatamente sotto al punto che stava fissando. Vi salì e, con la mano, andò a sfiorare la superficie macchiata.

«Strano! In questo punto è umido e caldo, mentre a pochi centimetri è freddo. Vuoi vedere che c’è qualche perdita? Ci mancherebbe solo di dover chiamare l’idraulico!»

Scese dalla sedia e si diresse verso il piano di sopra, più o meno in corrispondenza del punto che fino a poco prima osservava. Non notò nulla di strano, quindi ridiscese.

Alzò nuovamente lo sguardo: la macchia non c’era più. Salì sulla sedia per verificare: anche la temperatura era omogenea. Rimase ben più che perplesso, sedendosi sulla sedia e fissando, per alcuni lunghi momenti, il vuoto. Quando si alzò, si diresse con decisione verso il mobiletto basso che conteneva le stoviglie, sul quale erano appoggiate le medicine. Prese una pillola di clozapina e la inghiottì, senz’acqua.

Terminò il suo pranzo – se un panino poteva essere definito “un pranzo” – e si diresse al pianoforte. Cominciò a suonare, in ordine sparso, note profonde e grevi, alla ricerca dell’ispirazione per una musica da utilizzare nei momenti di maggior tensione del film. Non aveva ancora deciso cosa avrebbe prodotto, ma di sicuro voleva un fil rouge con variazioni sul tema in alcuni specifici momenti.

Lento, veloce, lento, molto lento, molto veloce: scrisse a casaccio vari pezzi, quasi a voler lasciare a un secondo momento le valutazioni su come armonizzarli tra loro. E, soprattutto, per seguire ciò che lo aveva sempre sostenuto da che suonava: il suo estro.

Aveva messo le mani su un pianoforte a cinque anni, perché i suoi genitori ritennero che avesse bisogno di disciplina e obbedienza: e cosa meglio della musica poteva disciplinare un discolo non ancora iscritto a scuola?

La passione crebbe esponenzialmente rispetto all’età. A quattordici anni già teneva concerti in tutta la regione e in quelle vicine. A sedici, il suo primo concerto all’estero. A diciotto, la consacrazione con diversi riconoscimenti importanti in giro per il mondo. Quel che si suol dire: un fenomeno.

Peccato per quell’aspetto che, sin da piccolo, lo aveva un po’ condizionato. Un carattere particolare. Un modo di comportarsi che, spesso, destava curiosità, quando non preoccupazione, in chi lo circondasse. E quegli incubi. Spaventosi. Lo perseguitavano sin da bambino, sin da quando lui avesse memoria di essere al mondo. Lo lasciavano lì, nel letto, sudato marcio, il più delle volte dopo grida di autentico dolore che ne interrompevano il sonno.

Non c’era stato alcun modo di intervenire su quella parte del suo essere: nessun medico, nessuna terapia, nessun accorgimento aveva fatto sì che essi non si rifacessero vivi. Magari con minor frequenza, ma tornavano all’assalto. Sempre.

Come qualche minuto prima.

Compose. Compose con passione e trasporto. E, come sempre accadeva, al termine del momento creativo distrusse la maggior parte di quanto aveva scritto.

Il pomeriggio trascorse senza che, praticamente, se ne accorgesse. Quando uscì dalla trance creativa era il crepuscolo. Decise di concedersi un bel bagno bollente, per poi andare immediatamente a dormire.

Probabilmente anche grazie alla clozapina assunta, non fu tormentato da incubi particolari. Si svegliò, quindi, appena prima dell’alba, con uno spirito molto positivo e con una gran voglia di lavorare.

Accesa la stufa e preparato il caffè, si mise immediatamente all’opera. Non erano trascorse nemmeno due ore, durante le quali aveva prodotto almeno una dozzina di fogli di partitura, che in lontananza si sentì la campanella del cancello suonare. Fu come catapultato fuori dal suo impeto creativo e si portò alla finestra, per vedere chi lo stesse disturbando. Erano in pochi a sapere che si fosse trasferito lì: il suo manager, sua madre, il caro amico Renzo. Nessun altro. Chi poteva essere?

Ferma di fronte al cancello, una Fiat Centoventisette bianca. Pur senza vederlo, riconobbe il suo compagno di mille avventure e, con fare allegro, aprì il portoncino di casa per andare ad accoglierlo.

«Renzo carissimo! Come stai?», disse sorridendo.

«Ciao, Manfred! Ti disturbo?», domandò l’amico.

«Ma assolutamente no! Vieni, vieni, che ti apro il cancello ed entri con la macchina!»

Fu questione di qualche secondo e la Centoventisette trovò parcheggio nel piccolo cortile antistante la casa.

«Che bella sorpresa! Ma quando sei partito? Ci sarà voluta tutta la notte per arrivare qui!», disse dopo averlo abbracciato, mentre lo faceva accomodare in casa.

«No, no! In realtà, sono partito un paio d’ore fa da Genova, dov’ero per lavoro. Ho pensato che, dato che oggi non avevo impegni, potevo passare per un saluto. Come stai?»

«Bene, bene! Sto lavorando a quella colonna sonora della quale ti avevo parlato. Non che sia l’aspirazione della mia vita, scrivere musica per film di bassa macellazione, ma pur di riprendere a lavorare con continuità sono disposto a fare anche questo. Metto su il caffè! E recupero due biscotti, di quelli che mi sono portato dietro col trasloco.»

«Grazie! Certo che sei venuto in un posto magnifico! Dev’essere un piacere alzarsi al mattino e ammirare un paesaggio del genere. Anche la casa è veramente bella! Ma alla fine l’hai comprata o affittata?»

«L’ho comprata. Ho pensato che quando sarò stufo di girare per lavoro, avrò bisogno di un buen retiro. Come, del resto, ne avevo bisogno adesso.»

Seguì un momento di silenzio, nel quale Manfred ultimò la preparazione della caffettiera e Renzo sembrò quasi imbarazzato per la domanda che stava per fare: «Hai ancora avuto episodi?»

Altra pausa, molto più lunga della precedente. Poi: «Prima di venire qui, no. Ieri ho avuto un paio di problemi, ma ho preso la pastiglia dopo pranzo e stanotte ho dormito molto bene.»

«Ma sei sicuro di voler rimanere qui, da solo, fino a quando non avrai terminato il lavoro? Non vuoi un po’ di compagnia? Anche solo un appoggio, per qualsiasi possibile momento di difficoltà.»

«Sì, Renzo, ne sono sicuro.», disse con voce ferma, ma dolce, «Credo che questo sia un passo fondamentale per poter poi riprendere la vita di prima, fatta di viaggi, di notti in albergo, di brevi momenti di bagno di folla e di lunghi momenti di solitudine. La mia vita è un inno alla solitudine. A parte te, caro amico, e la mia famiglia, non ho altri riferimenti. Credo sia giunto il tempo di farmene una ragione.»

«Arturo cosa ne pensa?»

«Arturo pensa che qualsiasi cosa possa farmi stare meglio, dev’essere tentata. D’altro canto, lui guadagna quando io sto bene, mica quando sto male.»

«Ma no, non è così! Lo sai che è affezionato a te, a prescindere da quanto tu possa fargli guadagnare. Quando è successo tutto, era veramente preoccupato, come per un parente, forse di più!»

«Mah, se me lo dici tu, mi fido. Anche se mi permangono dei dubbi. Tu come stai? Come stanno i tuoi?»

«Da vecchietti, come dicono sempre loro. Considerando che hanno più di ottant’anni, bene. Vivono insieme da soli, ogni tanto passo a trovarli e mi dicono sempre di trovarmi una fidanzata. Io darei anche retta, ma non dipende solo da me.», disse ridendo.

«Ma vai, va! Tu hai sempre avuto successo con le donne! Mica come me!», disse passandosi le mani tra i capelli, lunghi e ricci, come si addicevano a un artista.

Salito che fu il caffè, ne consumarono due tazze a testa, continuando a chiacchierare del più e del meno.

«Ma dimmi un po’: com’è questa sceneggiatura sulla quale stai lavorando?», domandò Renzo.

«In realtà, ne ho lette poche pagine, quelle iniziali. Racconta il percorso di un tizio chiamato “il cannibale della Slesia”, o qualcosa del genere. Uno che ammazzava i mendicanti e ne mangiava le carni, sfamando anche altri poveri che ospitava a casa sua. Mi dicono essere una storia vera, ma io non credo che all’inizio del novecento ci fossero situazioni di questo genere!»

L’amico sembrò colpito da quanto affermato da Manfred: «La storia di un omicida e cannibale?»

«Sì, perché?»

«No, niente.»

Non volle condividere con lui il suo dubbio.

«Sei sicuro? Hai fatto una faccia!»

«Tranquillo! Ho fatto una faccia strana perché queste cose mi fanno impressione!», disse, abbozzando un sorriso.

«A proposito di mangiare: ti fermi per pranzo? C’è una trattoria in paese. Avevo giusto intenzione di provarla, perché non ho molta voglia di cucinare. Mangiamo qualcosa e poi riparti.»

«Va bene, d’accordo! Intanto non ho appuntamenti, per oggi!»

«Mi vesto un attimo e usciamo. Andiamo a fare due passi e poi in trattoria! Tu fai come se fossi a casa tua!», disse, abbandonando la cucina per andare in camera da letto.

Ne tornò qualche minuto dopo, pronto per uscire. Trovò l’amico che stava leggendo la sceneggiatura: «Visto, come sono caduto in basso?»

Sollevò lo sguardo, quasi sorpreso: «Stavo leggiucchiando qua e là. Mi sembra una storia molto forte, d’impatto. Sei sicuro che si tratti di un film tratto da fatti realmente accaduti?»

«Così dice il produttore, uno che ha fatto fortuna con questi film pieni di sangue e scene al limite della nausea. Sembra che questo tale, Karl Denke, abbia ammazzato più di quaranta persone tra il millenovecentonove e il millenovecentoventiquattro, mangiandone le carni e facendole mangiare alle persone che ospitava nel suo albergo.»

«Chi è il produttore? E come ti ha contattato?»

«Si chiama Manuelli. Abita a Milano. Non so se mi abbia contattato lui, come mi ha detto Arturo, o se sia stato Arturo ad andare da lui. La versione ufficiale è stata che, per questo film, voleva una colonna sonora di qualità e “firmata” da un artista riconosciuto a livello mondiale. La sua intenzione è quella di sdoganare questi film dall’essere considerati di serie b, perché crede molto nel fatto che abbiano un futuro importante, davanti. So che sta scritturando attori molto famosi come protagonisti, ma non saprei dirti chi.»

«Capisco. Allora, se voleva un musicista famoso, ha trovato il migliore!», disse, sorridendo e posando la sceneggiatura.

«Forse, una volta. Adesso, purtroppo, devo ricostruirmi una verginità e una credibilità. Certe cose, ahimè, è impossibile che non lascino strascichi!»

Si avvicinarono alla porta d’ingresso. Manfred fece uscire l’amico e si tirò dietro il portoncino.

«Ma come? Non chiudi a chiave?», domandò, stupito, Renzo.

«No. La maniglia non funziona se non c’è la chiave e non è possibile entrare. E, comunque, dentro non c’è proprio niente da rubare!»

Passeggiarono per una mezz’ora tra i sentieri che si aprivano attraverso le vigne, godendosi una giornata ancora calda. Verso mezzogiorno, poi, arrivarono alla trattoria.

«Trattoria “Pancia piena”. Ottimo augurio!», osservò Renzo, leggendo l’insegna.

Entrarono e il titolare li fece accomodare a un tavolino posto vicino alla finestra più grande del locale. Tovaglia a quadrettoni, piatti di un servizio di fine anni quaranta, bicchieri trasparenti e spessi prodotti dalla vetreria di Acqui. Due rosette, fresche e morbide, su un piattino, con una decina di grissini.

«Buon giorno, signori! Benvenuti alla Trattoria “Pancia Piena”! Se non sbaglio, è la prima volta che vi abbiamo come ospiti, vero?»

Annuirono entrambi.

«Bene. Oggi possiamo offrirvi un antipasto con salame prodotto da un nostro compaesano, giardiniera fatta in casa e insalata russa. Come primo abbiamo gli spaghetti al ragù e come secondo lo spezzatino di vitello. Altrimenti abbiamo un piatto unico: polenta con sugo di funghi, o di cinghiale, o al burro, o con il gorgonzola. Da bere, acqua e vino.»

Manfred fu il primo a parlare: «Per me, niente antipasto. Prendo la polenta con il sugo di cinghiale. E acqua.»

Renzo seguì a ruota: «Stessa cosa anche per me, grazie!»

L’oste li ringraziò e raggiunse la cucina, per girare la comanda.

«Tu il vino puoi berlo, perché non lo prendi? Guarda che non mi offendo mica!», disse Manfred.

«Ma no, figurati! Il vino mi fa venire sonno! E poi devo guidare, quindi, meglio che non lo beva!»

«Come vuoi! Sai che non devi farti problemi.»

Trascorsero pochi minuti – meno di cinque – e l’oste tornò con i due piatti di polenta fumante.

Si misero a mangiare con buon appetito, chiacchierando ancora rispetto a passato, presente e futuro.

«Hai già sentito tua mamma, da quando sei qui?», domandò Renzo.

«No. Non ancora. Non ho il telefono – e nemmeno lo voglio – e pensavo di chiamarla sabato o domenica dal telefono pubblico che c’è in panetteria. Tra l’altro, ci lavora una ragazza molto bella e simpatica, che ho conosciuto ieri.»

«Come si chiama?»

«Lisa. Ha due occhi che parlano senza bisogno che apra la bocca. Veramente molto belli. Credo, però, che sia un po’ troppo giovane, per me. Avrà si e no vent’anni!»

«Beh, non è detto. In fondo, tra i tuoi genitori c’erano vent’anni giusti giusti, no?»

«Sì, ma erano altri tempi!»

Conclusero il pasto con un caffè fatto con la caffettiera, pagarono e si diressero verso casa. Appena arrivati, Renzo non entrò nemmeno: «Se mi apri il cancello, mi metto in marcia. Ho parecchia strada da fare e vorrei evitare di viaggiare troppo di notte.»

«Sì, ti capisco!», disse Manfred, aprendo le due ante della grande inferriata, «Non vorrei mai ti capitasse qualcosa!»

Si abbracciarono fraternamente, stringendosi l’un l’altro come se non dovessero vedersi più.

«Cerca di riguardarti, amico mio! E se hai bisogno, fammelo sapere! Io parto, dovunque sia, e arrivo da te.»

«Lo so, Renzo, lo so. Non ti preoccupare!»

«Certo che mi preoccupo! Sei qui da un giorno e hai già avuto episodi. Non è un bene, lo sai! E se dovesse continuare, si preannuncerebbe una tempesta forse peggiore di quella dell’altra volta! Sei qui da solo, siamo in pochissimi a saperlo, non hai il telefono in casa: credo sia normale, per me, preoccuparmi!»

«Certo, lo so. Credo sia stato solo lo stress del trasloco a giocarmi un brutto scherzo. Oggi, ad esempio, non è successo proprio nulla, come hai potuto vedere.»

«Sì, è vero. Comunque sia, non sottovalutare mai quel che è successo e non rimanere mai senza medicine!»

«Te lo assicuro!»

Renzo chiuse lo sportello della macchina, sulla quale, nel frattempo, era salito, e avviò il motore. Si salutarono ancora con un gesto della mano, poi fece retromarcia, infilò il cancello, si raddrizzò sulla strada e partì.

Manfred seguì l’utilitaria con lo sguardo fino a quando non sparì dietro a una siepe, poi alzò gli occhi al cielo, che stava cominciando a riempirsi di grandi nubi scure.

“Si preannuncia un temporale coi fiocchi!”, pensò tra sé e sé.

© Roberto Grenna – Riproduzione vietata

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