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Ecco qualche altra pagina del romanzo “Il fiume”, che è acquistabile qui. Buona lettura!

«Perché loro sì e noi no?»

Già: noi no. Mi sarebbe bastato così poco per essere felice. Una parola, una sillaba. Non riesco a ricordare tutto ciò che mi passò in testa in quei giorni. So, però, che proprio da quella gita si scatenò in me un’ossessione, fino ad allora solo abbozzata, quasi incorporea. Ero molto stanco, ma la voglia per il nostro ritrovo clandestino la trovai ugualmente. Stesso copione della sera precedente, fatto salvo che non ci prese un colpo quando la nostra cara guardia fece il giro di ricognizione, ben presto ribattezzato “giro del bacino della buona notte”. Avevamo sperimentato con successo il passaggio dal balcone, quindi decidemmo di non transitare attraverso il corridoio, ma di servirci della portafinestra. La facciata dell’hotel era completamente buia, quindi nessuno avrebbe potuto notarci. Protraemmo la nostra visita fin dopo le due, nonostante le mie palpebre fossero pesanti già da parecchio tempo. La prima parte della serata fu dedicata al commento alle opere architettoniche che avevamo visitato lungo la giornata.

«Com’è bella la cupola del Brunelleschi!»

«Sì, ma anche la Cappella Brancacci del Masaccio non è da meno!»

Sembrava un ripasso di storia dell’arte.

«Se vogliamo rimanere qui a parlare di quello che abbiamo visto ditemelo, che io me ne vado a dormire!»

Mi guardarono tutti.

«Vai pure a dormire!»

Fu proprio lei a rispondermi per le rime. Non so il perché, ma quando si atteggiava a quel modo mi piaceva ancora di più.

«Visto che me lo hai detto con quella faccia, resto!»

Mi mostrò la lingua, poi si mise a sorridere. Proprio quella sera mi parve di notare un certo interesse di Gianni nei confronti di Benedetta.

«Sarebbe un punto a mio favore!», pensai. Con i nostri quattro compagni di ventura reciprocamente impegnati, sarebbe stato più facile ritagliarci qualche momento solo per noi.

«Dì un po’, Gianni: sbaglio o stai facendo il cascamorto con Benedetta?»

Eravamo appena tornati in camera nostra. Abbassò lo sguardo, con un sorriso tra il compiaciuto e l’imbarazzato.

«Beh, sai com’è, parlandole ho scoperto che abbiamo molte cose in comune e poi… è dal primo giorno di scuola che mi piace! Il problema è che non so cosa lei pensi di me. Avrei bisogno di un aiuto, di qualcuno che glielo chiedesse per me.»

«Ah, non guardare me, eh?»

Sorrise nuovamente.

«Veramente, io pensavo ad Elena! Visto che dividono la stanza. Anzi, magari chiedo anche a Fabio di parlarne con Simona. Appena esce dal bagno.»

«Per quello che mi riguarda non dovrebbero esserci problemi. Non appena staremo un attimo soli ne parlerò ad Elena.»

«Ed io farò lo stesso con Simona. Ero in bagno, ma ho sentito tutto!»

Gli strizzò l’occhio. Ci coricammo, augurandoci reciprocamente la buona notte. Il risveglio, purtroppo, non fu dei migliori.

«Porca vacca! Le otto meno dieci! Sveglia, ragazzi! Siamo in un ritardo mostruoso!»

Il mastino avrebbe bussato da un momento all’altro e noi tre eravamo ancora beatamente a letto. Ci alzammo più che velocemente e ci vestimmo nel volgere di un paio di minuti. Rinunciammo totalmente alla parte di igiene personale, fatta eccezione per una spruzzata di deodorante sotto le ascelle. Il pettine lo portammo dietro. Ci saremmo pettinati in ascensore. Uscimmo dalla camera con gli occhi ancora semisocchiusi e ci scontrammo letteralmente con le nostre tre vicine.

«Ma guarda come sono ridotti! Sembra che si siano svegliati da dieci minuti!»

«Cinque minuti, prego!»

Scoppiarono a ridere e non si fermarono nemmeno alla vista del cerbero.

«Cosa avete da ridere, voi?»

«Niente, prof., niente!»

«E voi tre? Ma avete visto come siete combinati?»

«Sì, cioè, no… volevo dire… ecco, beh… non è suonata la sveglia… sa… mi sono dimenticato di caricarla…»

«Mamma mia! Sembrate dei bambini dell’asilo! Altro che liceali!»

Se ne andò con una mano sulla fronte, mentre noi cercavamo di riassettarci alla meglio. Proprio in quel momento sbucò la seconda simpatia della gita: Carlo.

«Allora, bella mia, sempre in giro con quella mezza cartuccia?»

«Per prima cosa, non sono “tua”. E poi lo decido io con chi mi va di stare. Tu non rientri in questa categoria.»

Fece una di quelle facce! Non si avvicinò più per tutto il giorno, ma la cosa non mi lasciò tranquillo. Non mi sembrava un tipo arrendevole, anzi. Per conto mio era il ritratto dell’ostinazione. Se ne andò insieme ai suoi compagni di stanza, mentre Fabio e Simona entrarono per un momento nella 107 da soli.

«Lo porto a lavarsi la faccia! Almeno quella!»

Ne approfittai anche io, prendendo Elena per mano.

«Vieni con me! Ho dimenticato una cosa.»

I due quasi piccioncini si ritrovarono soli, con profondo imbarazzo da parte di entrambi. Chiusi la porta a chiave.

«Ma che ti è preso?»

«Niente! Voglio solo lavarmi la faccia e… chiederti un favore.»

«Dimmi, se posso!»

«Puoi sicuramente»

Sorrisi. «Dovresti chiedere a Benedetta che ne pensa di Gianni.»

«Ma?»

«In che senso “ma”?»

«Nel senso che proprio ieri, subito dopo che ve ne eravate andati, lei mi ha detto che sta molto bene con Gianni. Ha sentito anche Simona, tutta eccitata perché a lei queste cose piacciono tantissimo!»

«Bene! Allora è fatta!»

«Fatta? Perché? Tu credi che Gianni?»

«Non credo! Sono sicuro… è stato tempo di confessioni anche qui!»

«Certo che si danno tutti un gran da fare, eh?»

«Eh, sì! Manchiamo solo noi due!»

«Cosa intendi?»

«Niente, niente! Usciamo, altrimenti pensano male! E poi lo sai che stamattina il prof. di disegno ci farà la lezione su Firenze e la sua arte, no?»

Uscimmo. Eravamo gli ultimi, come sempre. Incrociai l’occhiata che Fabio mi rivolse. Ci sorridemmo. Anche lui aveva saputo. L’unico ignaro era proprio il diretto interessato. Volgeva lo sguardo una volta verso di me, una volta verso di lui, senza capirci niente. Avremmo avuto modo di parlare. Per intanto, una buona colazione e… una mattinata a studiare per bene gli edifici e i monumenti che avremmo visitato e visto al pomeriggio. Andare in gita per sentirsi fare lezione. Ecco una cosa che non riuscivo a capire. Francamente, però, mi interessava molto di più sapere quale effetto avesse fatto in Elena quella frase che avevo buttato là. Non le avevo dato intenzionalmente il tempo di approfondire. Volevo capire se l’avesse o meno colpita. Sapevo che, in caso affermativo, si sarebbe fatta avanti lei per chiedermi spiegazioni. Sarebbero bastati pochi minuti da soli per verificare la bontà di quella che io ritenevo un’esca. Durante le tre ore di storia dell’arte ebbi molto a cui pensare. Mi sentivo strano, diverso da come ero a casa, da come ero di solito con lei. Non riuscivo a capire fino a quale punto sarei arrivato. Non so. Era come se quella fosse la cosa più importante della mia vita, anche più importante della nostra amicizia. Se avessi avuto l’occasione di darle un bacio, come sul pullman non più in là di due giorni prima, forse ne avrei approfittato. O forse no. Avevo una gran confusione in testa. Come ora. Questo stato di confusione, però, è molto diverso. Allora era la confusione del “prima”, era il non sapere le possibili reazioni dell’altra persona. Ora, invece, è la confusione del “dopo”, quella dei ricordi, dei rimpianti, del rimorso. Sono sempre le stesse parole, lo so, ma rispecchiano a malapena il mio stato d’animo. Non si possono descrivere i sentimenti, le passioni. Forse si può solo cercare di far capire agli altri l’intensità con la quale una persona li prova. Le sensazioni che mi invadono non possono essere rese né da aggettivi, né da immagini. Mi prendono nell’intimo, mi stringono lo stomaco, mi portano un gran mal di testa. Mi danno la dimensione di ciò che sono, di ciò che sono sempre stato. Mi fanno sentire sempre peggiore, sempre più cattivo, ogni momento che passa. E dire che Mara stravedeva per il mio modo di essere cupo, scontroso. Diceva che mi conferiva un aspetto misterioso, terribilmente affascinante. Mara. La seconda puntata di un film nato male e finito peggio. Ormai non riesco più a tenere separati i ricordi dell’una da quelli dell’altra, ma vedrò di non confonderli ancora, di non degenerare ancora. Non so per quanto ci riuscirò, purtroppo. Non ho mai saputo dominarmi e neppure ora ce la faccio. Sono un perdente. Ho perso soprattutto la partita con me stesso, quella che avrebbe cambiato, forse, i destini di tante, troppe persone. Non mi viene facile riprendere il discorso appena tralasciato. È necessario che lo faccia. Temo che quello abbia sancito l’inizio della parte discendente della parabola, anche se mentre lo vivevo non avrei mai potuto immaginare quello che di lì a poco sarebbe accaduto. Ricordo veramente poco di quel pomeriggio, di quelle ultime chiese che costituirono la nostra meta. Con quella mezza giornata concludemmo il “capitolo” dedicato al “sacro”, mentre dalla mattinata successiva avremmo iniziato il secondo e ultimo, quello volto al “profano”: palazzi, gallerie, musei. Man mano che la gita si trascinava avanti mi rendevo sempre più conto che l’unica parte interessante della giornata era la nostra “visita” alle vicine. Ora quasi mi dispiace di aver subito così passivamente quella che è senz’altro la più bella città d’arte del mondo, soprattutto sapendo che non avrò un’altra occasione per poterla visitare. Non che la cosa, al punto nel quale mi trovo, rivesta una fondamentale importanza. È solamente un altro piccolo cruccio che porto con me. Quella sera non ci fu la solita passeggiata, dopo cena. Il professore di matematica non si era sentito troppo bene, forse a causa di tutti gli accidenti che gli avevo mandato. I suoi due colleghi vollero tenergli compagnia, così rientrammo in camera verso le ventuno. Senza la sentinella fuori dalla porta fu tutto più facile, anche se attendemmo quasi un’ora prima di procedere all’ormai solita transumanza. Prima di andare, infatti, Gianni volle farsi raccontare tutto quello che Fabio, Simona, Elena e io ci eravamo detti quel mattino. Benedetta e lui si erano scambiati a malapena qualche parola, frenati dalla timidezza. Lo tenemmo un po’ sulle spine, dicendogli inizialmente che non aveva nessuna speranza, che lei lo aveva definito ‘un pinguino’ e che il fatto che si mostrasse gentile con lui era solo un modo per prenderlo in giro. Ci rimase malissimo, al punto che vestì velocemente il pigiama e si infilò subito sotto le coperte. Si alzò solamente quando scoppiammo a ridere, dicendogli che aveva abboccato come un pesce allo scherzo. Ci odiò. So che ci odiò, ma la gioia nel sapere che le sue attenzioni erano ricambiate fece in modo che ci perdonasse subito. Mettemmo a punto anche una specie di ‘piano’ per fare sì che loro due potessero stare un po’ soli. Simona e Fabio, con una scusa, si sarebbero mossi alla volta della 106, mentre Elena e io ci saremmo accontentati di trascorrere la serata sul terrazzo, visto che le stanze erano solo due. Tutto funzionò al meglio. Dopo poco più di mezz’ora i primi due incomodi si allontanarono per discutere di “faccende importanti e riservatissime”, così come ci dissero. Mi mossi pochi minuti dopo di loro, aprendo la portafinestra e uscendo sul terrazzino. Da fuori chiamai Elena, che non si fece pregare e mi raggiunse subito. Feci per spiegarle la situazione, ma lei mi fermò.

«Ho capito tutto! Siete stati veramente furbi! Pensa che eravamo già pronte noi ad attuare un piano del genere, ma ci avete anticipate!»

«Eh, sì! Quando si tratta di far funzionare la materia grigia non siamo secondi a nessuno! Spero solo che quest’arietta frizzante non preannunci un temporale.»

«E se anche fosse? Al massimo rientriamo un attimo in camera e, come se niente fosse, ci spostiamo in bagno!»

«E brava! E che scusa troveresti per andare insieme in bagno?»

«Questo non lo so, ma visto che non sei secondo a nessuno nel far funzionare la materia grigia…»

«Toccato!»

Sorridemmo entrambi. Per la prima volta in vita mia ero imbarazzato nel trovarmi solo con lei. Ci sedemmo vicini, per terra, guardando il cielo.

«Senti…»

«Sì?»

«Niente…»

La stessa figura fatta al campeggio.

© Roberto Grenna – Riproduzione vietata

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