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Ecco il terzo capitolo di questa storia, che richiama un periodo del nostro Paese ormai lontano. Buona lettura!

Sandovàl

Quel pomeriggio fu particolarmente produttivo.

La visita, inaspettata quanto gradita, l’aveva rasserenato, consentendogli di affrontare con nuovo vigore il suo lavoro. L’opera di composizione si alternò più volte con la lettura della sceneggiatura. In una scena, il protagonista suonava un requiem all’organo a canne in chiesa – era, infatti, anche l’organista del paese – e questo gli consentì anche di sbizzarrirsi nella ricerca del brano più adatto, facendolo andare così a fondo nella sua conoscenza della musica da renderlo orgoglioso di quanto avesse saputo fare nella vita, dello studio e delle fatiche cui aveva fatto fronte per diventare ciò che, fino a qualche mese prima, tutto il mondo gli riconosceva di essere: il migliore.

Staccò dal lavoro solamente a sera inoltrata. Nemmeno i tuoni e i lampi del temporale che, come aveva previsto, si era abbattuto sul paese ebbero il potere di distrarlo.

«Le nove e mezza! Converrà che mangi qualcosa e che vada a dormire. Domani dovrò andare in città a comprare le medicine e dovrò alzarmi presto!», disse ad alta voce.

Nel silenzio della cucina, interrotto solamente dal crepitio della legna che ardeva nella stufa, gli faceva piacere sentire, ogni tanto, la sua voce. Scaldò in un pentolino un po’ di latte, vi aggiunse del caffè avanzato da quella mattina e vi inzuppò il pane del giorno precedente, continuando a leggere, quasi con avidità, il copione.

Interno. Notte. Cantina dell’albergo, con la porta chiusa a chiave. In un silenzio di tomba, si sente solo il rumore metallico di due coltelli sfregati l’un l’altro sulle lame, per affilarle. Su un banco da lavoro, un grande pezzo di carne, una coscia. Karl, coperto da uno spesso grembiule di cuoio, comincia a incidere la pelle con maestria quasi chirurgica. Prima incisione longitudinale, poi una seconda, un paio di centimetri più in là. MUSICA LENTA E ANGOSCIANTE. L’operazione continua per un paio di minuti, con Karl che scotenna la carne con accuratezza e mette le strisce di pelle ad asciugare su una corda sottile, di quelle usate per stendere i panni. Dopo aver concluso l’operazione, l’uomo si lava le mani in un piccolo lavabo e si porta nell’angolo estremo del bancone, dove sono accatastate altre strisce di pelle, già essiccate e pronte per essere utilizzate. Estrae da uno dei cassetti un grosso ago e del filo per cucire, si siede su un alto sgabello e comincia a scegliere pezzi di pelle sui quali lavorare. CONTINUA LA MUSICA, MA AUMENTA LENTAMENTE LA VELOCITÀ. Primo piano delle mani che cuciono. Stacco. Altro primo piano, su una cucitura differente rispetto a prima. LA VELOCITÀ DELLA MUSICA AUMENTA ANCORA. Stacco. Altro primo piano su una cucitura che mette insieme due pezzi di pelle cuciti a V con un terzo. Stacco. LA MUSICA SI FA PIÙ VELOCE E CUPA. Inquadratura a mezzo busto su Karl che depone ago e filo e prende in mano il risultato del suo lavoro: un paio di bretelle da uomo. FINE MUSICA. Stacco. Esterno. Giorno. MUSICA SPENSIERATA. Campo lungo sulla via principale del paese. Si vede l’insegna di un emporio e Karl che vi entra con un borsone. ‘Buon giorno, Karl! Cosa mi porta, di bello?’, domanda il proprietario dell’emporio. ‘Ho dieci paia di bretelle, due cinture e della carne!’, risponde l’uomo. ‘Sa sempre stupirmi! Ma dove trova tutta questa roba?’, chiede il bottegaio. ‘Non posso rivelarglielo: è un segreto!’, risponde sorridendo.

Finita la sua parca cena, vestito il pigiama e spenta la stufa, si portò in camera da letto. Aveva come abitudine, da quando era stato ricoverato, di dormire con la luce dell’abat-jour accesa, quasi a voler tenere lontani gli spettri della sua mente. Appoggiò sul comodino la sceneggiatura – aveva pensato di leggerne ancora qualche pagina – e si coricò, socchiudendo gli occhi. Dall’esterno, il battere ritmico delle gocce di pioggia contro le persiane.

All’improvviso, proprio mentre stava per assopirsi, un rumore sinistro, un cigolio. Aprì di scatto gli occhi, cercando di localizzarlo. Non riuscendovi, si alzò, vestì la giacca da camera e uscì dalla stanza da letto, alla ricerca dell’origine di quell’attentato al suo sonno.

Si portò dapprima in bagno: nulla. Aprì la porta dell’altra stanza: nulla. Poi, scese al piano di sotto, in sala: nulla. Andò in cucina: ancora nulla. Curiosamente, in qualsiasi stanza si trovasse, gli pareva di percepirlo esattamente allo stesso volume, non riuscendo, quindi, a orientarsi.

Decise, allora, di salire nella soffitta, dove non aveva ancora messo piede. La vecchia porta in legno si aprì con uno scatto non appena ne toccò la maniglia, quasi come se questa fosse difettosa. Cercò l’interruttore della luce, ma non lo trovò. Scese, allora, in cucina, dove prese una candela e un pacchetto di fiammiferi.

Salì i cinque gradini che dalla porta conducevano al grande spazio, prevalentemente occupato da vecchi scaffali di legno impolverati. In un angolo, una finestrella. Aperta. Cigolante.

“Ti venisse un po’ di bene!”, pensò, “Ancora un po’ a girare e rischiavo d’impazzire!”

Il pavimento in prossimità della finestra era bagnato, in quanto la pioggia era penetrata dall’apertura. Vi si avvicinò, poggiò il portacandele a terra e alzò entrambe le braccia per cercare di chiuderla. Una improvvisa folata di vento fece spegnere la fiammella.

«Ma porca di quella Eva! Ci mancava anche questa!», disse ad alta voce, cercando in tasca la scatola di fiammiferi. Ne accese uno e, avvicinandosi alla candela, provvide a riaccenderla.

Spento il fiammifero, si riavvicinò alla finestra. Altra folata di vento, candela nuovamente spenta.

«No, ma non è possibile! Da dove accidenti arriva tutta quest’aria? L’ho posata praticamente vicino al muro!», pensò, mentre si accingeva a ripetere l’operazione di pochi secondi prima.

Acceso che ebbe il secondo fiammifero, e con questo la candela, provò a posizionarla in un altro punto del locale, più precisamente in uno degli angoli d’incontro dei muri.

Non fece in tempo ad avvicinarsi alla finestra, che la fiamma era nuovamente spenta. Cominciò a spazientirsi, anche considerando il fatto che sentiva una grande stanchezza addosso e che non vedeva l’ora di andare a dormire.

Sfregò l’ennesimo zolfanello – così li aveva sempre chiamati sua nonna – e lo posizionò proprio davanti al viso. Ed ecco, dal buio, emergere la figura di colui che ne aveva gestito i comportamenti da quando era piccolo: Sandovàl!

«Cosa ci fai, tu qui?», gli domandò, indietreggiando bruscamente e sgranando gli occhi, non celando assolutamente il disagio per quell’incontro.

La figura, lisciandosi il pizzo caprino con la mano, si limitò a sorridere, senza proferir verbo.

«Avanti, maledetto! Parla! Cosa vuoi?»

Continuando il suo lento movimento manuale, aveva l’espressione di chi stesse pensando a cosa rispondere. Poi, sempre senza parlare, alzò il dito indice della mano destra e lo puntò verso il naso di Manfred.

Indietreggiò nuovamente. Non voleva che lui lo toccasse. Anzi, a dire il vero, non voleva nemmeno che fosse lì, con lui. E nemmeno avrebbe voluto averlo nella sua vita. Ma c’era. E si era ritagliato uno spazio molto importante.

Lo fissava. Poi, chiudeva gli occhi per qualche istante, nella speranza che sparisse. Ma niente, li riapriva ed era ancora lì, l’unghia appuntita ad indicarlo.

«Sei solo il frutto maledetto della malattia! Vattene e lasciami in pace! Non riuscirai a farmi compiere altri atti come quello dell’ultima volta!»

La figura lo fissò, dapprima serissima, poi sogghignando. Infine, si aprì a una risata sguaiata e volgare, che pareva provenire direttamente dall’inferno.

Manfred pose le mani a copertura delle orecchie: «Ti ho detto di lasciarmi stare!», gridò, coprendo anche il rumore della pioggia.

Si buttò a terra, in posizione fetale, con le mani strette sulla nuca e la fronte premuta con forza sulle ginocchia. Gli occhi chiusi, a cercare un buio più profondo di quello che lo circondava; la bocca contrita in una smorfia a metà tra il dolore e il terrore.

Le tempie gli pulsavano, proprio come gli era capitato qualche giorno prima del suo insano gesto, e la testa era una ridda di voci incontrollate che inneggiavano a Sandovàl.

Non alzò più il capo e crollò in un sonno agitato, tormentato da incubi che nulla avevano di reale, con il cuore che viaggiava a mille e lo faceva stare, comunque, male.

Si risvegliò al sorgere del sole, nel suo letto. Sulla sedia, posta di fianco a lui, la giacca da camera bagnata fradicia, che aveva accumulato sul pavimento sotto di sé una pozzanghera d’acqua. Ai piedi del letto, le ciabatte sporche di fango e zuppe peggio della giacca.

Sentì un brivido di freddo lungo tutto il corpo e si rese conto che anche il pigiama era bagnato, così come il letto.

«Ma cosa accidenti…», disse a voce alta, ma con tono stridulo.

Si guardò intorno sbigottito, in capace di ricordare come fosse arrivato al letto – il ricordo del suo incontro era ben vivo nella sua testa – e, soprattutto, inconsapevole rispetto a alla presenza di tutta quell’acqua sui suoi vestiti.

«Cristo, Cristo, Cristo! Quel bastardo è tornato. Viene per farmi impazzire di nuovo. Ah, ma questa volta non ci riuscirà! No, no, non ci riuscirà!», disse, con un ghigno che poco aveva di sano stampato in volto. Poi, si abbandonò a una risata isterica, che squarciò la quiete di quel momento, già messa a dura prova dalla sua voce.

Si alzò di scatto e si portò in bagno, togliendosi i pezzi del pigiama durante il breve tragitto ed entrandovi in mutande.

Aprì il rubinetto e si lavò la faccia. Una. Due. Tre volte. Niente. Quell’immagine non spariva dalla sua testa. Quel demone – altro non poteva essere – si stava nuovamente impossessando della sua testa, del suo essere vivo e libero nonostante lui. Della sua sanità mentale, come la chiamavano i dottori. Si asciugò rapidamente e si portò in cucina, dove prese la sua pastiglia, nella speranza che l’aiutasse a stare meglio, anche se già sapeva che non l’avrebbe mai potuto aiutare a dimenticare.

Doveva sbrigarsi. La corriera sarebbe partita di lì a una mezz’ora e doveva ancora vestirsi e fare colazione. Preparò il caffè, dopo aver acceso la stufa, per poi tornare in camera da letto, dove estrasse dall’armadio un paio di pantaloni sportivi a quadrettoni e una camicia azzurra.

Si vestì fissando ora la giacca da camera, ora le ciabatte, domandandosi come avesse fatto a ridurle così. Pose uno straccio da pavimento sotto la giacca, in corrispondenza della pozza d’acqua che si era generata. Prese le ciabatte e le portò con sé in bagno, buttandole nella vasca e lavandole con il getto della doccia. Vide il rivolo di acqua sporca di fango scendere verso lo scarico, portandosi dietro pezzi di terra argillosa, fili d’erba e foglie.

Si voltò di scatto, sentendosi osservato. Nessuno. Riprese le operazioni di lavaggio. Nuovamente una sensazione brutta, un nuovo scatto della testa verso la porta. Ancora niente. Si convinse che fosse tutto figlio di quella pessima nottata.

Poi, un rumore. Un tonfo sordo.

Uscì dal bagno, senza nemmeno asciugarsi le mani, e si guardò intorno. Nulla. Infilò la testa in camera da letto. La sedia sulla quale aveva messo la giacca ad asciugare era caduta all’indietro.

«Al diavolo!», esclamò, «Mi hai fatto prendere un colpo!»

Tornò in bagno e ultimò quanto iniziato, per poi prepararsi velocemente per il suo viaggio in città.

L’aria era carica d’umidità per la pioggia del giorno precedente. Nubi screziate solcavano ancora il cielo, apparentemente senza intenti minacciosi. Prese un bel respiro, il primo profondo dalla sera prima, e si avviò alla fermata del bus, che distava un paio di centinaia di metri, verso il centro del paese. L’attesa durò poco meno di cinque minuti, il viaggio, poco più di dieci.

C’era il mercato, quel giorno. Una distesa infinita di bancarelle di ogni genere distribuite per tutte le vie del centro. E confusione. Tanta confusione.

Si ritrovò in mezzo a un nugolo di massaie, anziani, bambini urlanti e cominciò, suo malgrado, a sudare.

Si diede un buon passo per raggiungere la farmacia, così da ridurre al minimo la sua presenza in quella bolgia dantesca e da poter tornare quanto prima a casa, dove il suo pianoforte e il lavoro – ma soprattutto la quiete e il silenzio – l’attendevano.

© Roberto Grenna – Riproduzione vietata

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