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Ecco qualche altra pagina del romanzo “Il fiume”. Buona lettura!

Non glielo dissi. Nonostante lei avesse solo tre giorni di lezione alla settimana, era in università dal lunedì al venerdì. Un po’ per studiare, molto più per poter stare con me. Il nostro rapporto, proprio grazie alla possibilità di vivere le medesime esperienze tutti i giorni, assunse agli occhi di tutti un’aura di stabilità, di raggiunto equilibrio. In effetti, l’ambiente nel quale vivevamo le nostre giornate, così caotico, talvolta frenetico, contribuiva molto a tenerci vicini. Qualche volta, sinceramente, mi trovai a pensare che mi ero abituato a Mara come un malato cronico possa abituarsi ai propri disturbi. Se solo l’avesse immaginato, sarebbe scoppiata a piangere. La realtà, forse, era diversa. Il fatto che fossi finalmente uscito dall’ambiente del liceo, da quella classe nella quale, in un modo o nell’altro, aleggiava sempre e comunque il fantasma di Elena, mi aveva, probabilmente, giovato. Continuai a vedere e frequentare, sempre a mio modo, alcuni tra i miei ex compagni, ma quella nuova realtà aveva fatto, in un certo quel modo, da filtro, da barriera. La vita, per sua natura, è fatta di distacchi. Ce ne accorgiamo già subito, alla nascita, quando veniamo separati da colei che ci ha concepiti e ci ha permesso di crescere dentro di lei. Continuiamo, poi, attraverso gli anni, attraverso i volti, le voci e quant’altro ci circondi. Quante volte le conoscenze durano lo spazio di un minuto, di pochi secondi, talvolta di uno sguardo. Quante volte ci si ripromette, incontrando una persona, di ritrovarsi, di cercare un po’ di tempo da passare insieme, dimenticando, spesso, che l’unica cosa certa è il presente.
«Mamma mia! Che discorsi deprimenti!»
«Non ci posso fare nulla. Tu mi hai chiesto cosa ne pensavo, io ti ho risposto.»
«Questo è vero, ma mi sconvolge il fatto che tu consideri la vita come una lunga sequenza di attimi da cogliere, da non lasciarsi scappare.»
«Non è questo che intendevo.»
«Ah, no? Allora rispiegamelo!»
«Ascolta: supponiamo che tu e io ci incontriamo un giorno, dopo parecchi anni nei quali non ci siamo visti. Andiamo tutti e due di fretta, quindi ci diamo appuntamento per poter parlare un po’, del più e del meno, per l’indomani, a pranzo. Quello che vorrei che tu capissi è che nessuno di noi due ha la certezza di poter arrivare all’appuntamento. L’unica cosa certa è che sia tu, sia io, in quel preciso momento, siamo vivi. Non mi pare molto complicato, come concetto!»
«Insomma, tu mi dici che dovrei vivere ogni istante della mia vita come se fosse l’ultimo.»
«Più o meno! Credo sia l’unico modo per non avere rimpianti!»
«Certo che sentirti dire queste cose è piuttosto strano. Ti sei sempre, passami il termine, estraniato dalla tua vita, mortificandola e facendo in modo che trascorresse in silenzio. Hai cercato di evitare le altrui interferenze, vivendo in un tuo mondo che ancora adesso, dopo più di due anni di frequentazione assidua, devo conoscere. Che logica ha seguito il tuo comportamento? Che cosa hai colto dalla tua vita, fino ad ora?»
«Nulla. Nulla di buono. Solo facciate contro il duro muro della realtà.»
Fu una delle rare volte nelle quali mi aprii un po’ di più con lei. Fu uno dei momenti di “confusione”, come li ho battezzati, che ho vissuto negli ultimi due anni. Momenti nei quali rimettevo in gioco tutte le teorie che avevo difeso fino al giorno precedente.
«Che ne diresti di andare a mangiare qualcosa?»

© Roberto Grenna – Riproduzione vietata

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