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Ecco qualche altra pagina del romanzo “Il fiume”, che è acquistabile qui. Si entra nella seconda parte della storia di Dario. Buona lettura!

“E tu, fatta di sguardi, tu e di sorrisi ingenui, tu…”

Sguardi e sorrisi ingenui. Sono le uniche cose che mi restano di Elena, sono le uniche cose che mi restano anche di Mara, oltre ai suoi regali, tra i quali un braccialetto. Me lo fece trovare, in un pacchettino dorato con un grande fiocco rosso, sotto un tovagliolo di carta, in pizzeria.

«Per il nostro primo anno insieme!»

«Primo anno?»

«Ma come? Non ti ricordi? Giusto un anno fa verso quest’ora ci stavamo dando il primo bacio!»

Era abituata alle mie dimenticanze. Non fece nemmeno molto caso al fatto che io non le avessi regalato niente. Mara. Era entrata nella mia vita quasi sottovoce, con il tono, cioè, nel quale mi chiese «È libero questo posto?»

Manco a farlo apposta, d’estate. Si sedette nel posto accanto al mio solo dopo aver visto il mio disinteressato annuire.

«Grazie!»
Il suo viso sorridente strideva fortemente con il mio stato d’animo. Venivamo entrambi dalla città. Mi cadde l’accendino, con il quale stavo nervosamente giocando.

«Aspetta! Ecco qua! È veramente molto bello!», disse, restituendomi lo Zippo.

«Grazie.»
Lasciò passare meno di un minuto.

«Certo che sono proprio maleducata! Non mi sono nemmeno presentata! Mi chiamo Mara. Molto piacere!»

«Dario. Piacere.»

«Mi sono trasferita da queste parti da poco. La prossima fermata è già la mia.»

Ricordo che mi guardò dritto negli occhi.

«Anche io scendo alla prossima.»

Nonostante fossi quasi infastidito da quella che consideravo una invasione del mio dolore, mi ritrovai a risponderle, quasi trascinato dalla sua vivacità. Mi sorrise. Solo adesso riesco a vederne tutta la bellezza, ad apprezzare tutta la sua semplicità. Lasciai che scendesse prima lei, poi, con un salto, evitai i tre gradini e mi ritrovai sulla terra ferma.

«Dove passi per andare a casa?»

«Giù di qua.»

«Allora facciamo la strada insieme.»

Ci incamminammo lentamente. O, meglio, io mi incamminai lentamente. Lei prese il mio fianco.

«Se tutto dovesse andare bene, questo sarà uno degli ultimi viaggi in autobus: sto tornando dalla scuola guida. La prossima settimana avrò l’esame di guida e ancora non sono capace a parcheggiare come si deve!»

La guardai con superficialità.

«E tu? Non ce l’hai la patente?»

«No. Sono ancora troppo giovane. Comunque sia, io sono capace a parcheggiare.»

Mi rivedo decisamente odioso. Lei, invece, non fece una piega.

«Io abito là in fondo. E tu?»

«In quella casa lì. Perché?»

«Niente! Era solo per sapere! Sai, da quando sono qui sei la prima persona più o meno della mia età che conosco. È molto difficile trasferirsi da un paese all’altro alla mia età!»

«Quanti anni hai, scusa?»

La domanda mi uscì di bocca quasi senza volere.

«Diciannove compiuti. Ho finito gli esami di maturità il mese scorso e ora devo iscrivermi all’università. Io non ne avrei molta voglia, ma…»

Non le diedi il tempo di terminare la frase.

«Io sono arrivato.»

«Beh, grazie per la compagnia! Spero di rivederti presto. Ciao, Dario.»

«Ciao…»

«… Mara.»

«Sì. Ciao, Mara.»

Entrai in casa di pessimo umore, salutai mia madre e uscii di nuovo. Elena mi aspettava. Andavo a trovarla tutti i giorni, spesso anche più volte nell’arco di una giornata. La foto sul marmo non le rendeva giustizia. Era molto più bella rispetto a quello scatto di pochi giorni prima della tragedia. Mi sedevo lì, ai suoi piedi, senza dire niente, limitandomi a fumare. Ogni tanto incontravo Paola e Mauro. Non avevo saputo star loro vicino. Non avevo minimamente considerato il loro dolore. Nessuno, a mio modo di vedere, poteva aver sofferto quanto me. Nessuno. Nemmeno loro. Povera Paola. Povero Mauro. Dalla nascita (o, meglio, dalla morte) di Monica non avevano più potuto aver figli. Con Elena se ne era andata la loro perla, la loro ragione di vita. Seppi che più volte Mauro aveva proposto alla moglie l’adozione di un bimbo o di una bimba, ma lei si era mostrata, almeno inizialmente, contraria, quasi infastidita, ferita da quella proposta. Col tempo e con molta fatica, però, stanno riuscendo a riacquistare la serenità. Hanno due bimbe bellissime, due sorelline, che sono state loro concesse in adozione. I nomi, manco a dirlo, Elena e Monica. Per loro è stato un po’ come rinascere. A me la vita ha riservato, invece, un’altra morte interiore, un’altra batosta. Forse è stata la mia negatività a portarmi tutti gli avvenimenti ultimi, forse il destino, forse il pezzo che io rappresento non fa più parte del grande puzzle, del grande progetto che è il mondo. Nei giorni seguenti il mio primo incontro con Mara, la rividi piuttosto spesso.

«Ciao!»

«Ciao.»

«Sto andando a prendere l’autobus per andare a scuola guida. Mi accompagni?»

«Guarda che di autobus non ne passano almeno per un’ora.»

«Ma sei sicuro? Eppure a me avevano detto che ce n’è uno tra pochi minuti.»

Era una bugia, come lei stessa ebbe modo di raccontarmi qualche tempo dopo.

«Beh, visto che mi tocca aspettare un’ora, se non ti do fastidio ti accompagno. Dove stai andando?»

«Al cimitero. E preferirei andarci da solo.»

«Ah, capisco! Se vuoi, ti accompagno fin là e poi torno indietro. Non so nemmeno dove sia. Così comincerò a conoscere un po’ meglio il paese!»

«Fai come vuoi.»

«Ok, grazie.»

La ritrovai all’uscita del camposanto.

«La sai una cosa? Non sono più stata capace di tornare indietro!»

Era rimasta lì ad aspettarmi per quasi un’ora.

«Non dovevi andare a scuola guida?»

«Sì, ma non sono stata in grado di arrivare alla fermata dell’autobus e così… ma non c’è problema! Andrò domani!»

Mi parlava sempre fissandomi, sempre cercando il mio sguardo. Io, di contro, glielo negavo. Il giorno nel quale passò l’esame di guida la vidi arrivare davanti a casa con la Due Cavalli che si era comperata con i suoi risparmi.

«Ce l’ho fatta!», disse scendendo dalla macchina, mal parcheggiata sul ciglio della strada.

«Brava.»

«L’ingegnere è stato veramente gentile! Ho sbagliato il parcheggio, ma lui ha fatto finta di niente!»

«Eh, l’avevo capito.»

«Capito, cosa?»

«Che non sai parcheggiare.»

Mi sorrise, quasi come se avesse interpretato quella frase come una battuta. Così non era. Per me voleva esprimere il disagio, quasi il fastidio di quella sua ingombrante presenza. I miei rapporti con gli altri erano notevolmente peggiorati. Fabio e Gianni, che mi conoscevano bene, mi lasciavano stare. Non come tanti altri, sempre lì a chiedere «Cosa c’è?» o «Cos’hai?» o «Non stai bene?»

No. Loro sapevano che era meglio lasciarmi solo, soprattutto dentro. Si limitavano a rapporti di semplice conoscenza, anche se la cosa, come ora so, li ha sempre fatti soffrire parecchio. Come Andrea. Il miglior cugino che una persona possa avere. Non riesco a capire come faccia a volermi sempre insieme a lui, dopo tutte le volte nelle quali l’ho trattato male. Ancora pochi giorni fa mi ha proposto di andarmene due settimane in Grecia con lui, «Non per dimenticare, ma per capire.», come mi ha detto. Andrà da solo. Passai quel mese di agosto con Mara perennemente alle calcagna. Quando non mi veniva a chiamare, si faceva trovare nel vialetto che porta a casa mia, molte volte seduta per terra, intenta a leggere libri sempre diversi.

«Mi servono per la prova di ammissione all’università.», mi confidò una volta. Sempre più spesso, poi, mi accompagnava al cimitero. Una volta arrivati, mi aspettava fuori. Sempre. Soprattutto, mai una domanda per cercare di scoprire il motivo di quelle mie prolungate visite. Nonostante fossi infastidito dalla sua invadenza, o, almeno, da quella che io vedevo come tale, mi lasciavo quasi sempre trascinare da lei, dalla sua carica di energia.

«Se ti va, potremmo andare al mare, domani.»

«Non ne ho voglia.»

«Ma dai! Vedrai che un po’ di sole non ti farà che bene!»

«Ti ripeto che non ne ho voglia.»

«Va bene, allora! Passerò domani mattina alle sette a chiamarti. Ciao!»

Si allontanò.

«Guarda che mi troverai ancora a letto.», le gridai mentre correva verso casa. Così avvenne. Non si scompose più di tanto e attese in macchina per quasi un’ora che io fossi pronto.

«Alla buon’ora!»

«Te l’avevo detto che non ne avevo voglia.»

«E allora, cosa ci fai in macchina con me?»

«Guarda che se ti do fastidio scendo subito!»

«Se proprio vuoi! Sono in quarta, a pieni giri!»

Aprii la portiera del lato passeggero, quasi a voler scendere davvero. Lei, quasi se l’aspettasse, non fece una piega.

«Allora? Non scendi?», mi chiese ridacchiando.

«Prima, però, togliti la cintura!»

Scoppiò in una risata fragorosa, ma assolutamente non volgare. Si poteva capire da ogni suo gesto quanto fosse più grande di me, molto più dei due anni scarsi che ci separavano anagraficamente. Già, molto di più. Aveva una maturità fuori dal normale, una visione del mondo che, non faccio fatica ad ammetterlo, spesso le ho invidiato. Non so se lo fece per caso o per conoscenza della disgrazia che era successa, ma mai mi propose di andare al fiume. Ora ci ripenso e apprezzo molto la sua discrezione, da questo punto di vista. Mia madre, dopo una iniziale diffidenza, cominciò a simpatizzare fortemente per lei. Povera donna. Dalla scomparsa di Elena aveva praticamente perso il suo unico figlio. Non solo. Anche i suoi rapporti con Paola si erano raffreddati. Una frase, una volta, l’aveva lasciata molto scossa: «Se non fossero stati sempre insieme da soli, forse adesso sarebbe ancora viva!»

L’avevo sentita anche io, quella frase. Avevo pianto, da solo, di nascosto, sulla sua lapide, per quelle parole. Non ero stato in grado di trarla in salvo dalle acque, ma, soprattutto, era a causa mia se si era tuffata in cerca di un po’ di refrigerio, in cerca di un po’ di chiarezza dopo il mio discorso. Mi sentivo, come ora, l’unico responsabile della sua morte. L’unico, il solo responsabile.

«Congestione.», dissero i medici.

«Congestione.»

Quella parola continuò a danzarmi nella testa per tutto il tragitto dalla chiesa al cimitero. La bara, bianca come la sua innocenza, come quel suo spirito che mi aveva fatto innamorare di lei, fu calata lentamente nella fossa. Lì di fianco, inginocchiato, c’ero io. Anche quel fatto, lo scopersi dopo, aveva dato molto fastidio a Paola. Lo aveva interpretato, errando, come un gesto teatrale, come una azione carica di enfasi per attirare l’attenzione. Se solo i miei non mi avessero tenuto, mi sarei lasciato cadere con lei. Se solo fossi stato un briciolo più coraggioso, ora non sarei più qui. Mi ritrovai la vita invasa da Mara dopo che erano trascorsi appena un paio di mesi dalla fine della psicoterapia. Avevo manifestato una certa tendenza autodistruttiva, cosicché i miei genitori decisero di mandarmi da uno psicoterapeuta molto bravo, famoso per aver ‘guarito’ dalle loro turbe psichiche un paio di personaggi molto in vista della vita politica di questo angolo sperduto di mondo. Non fui mai sincero con lui. Non so se se ne sia mai accorto, ma gli ho quasi sempre raccontato delle frottole. Tranne quando mi rivolgeva quella domanda.

© Roberto Grenna – Riproduzione vietata

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