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Ecco qualche altra pagina del romanzo “Il fiume”, che è acquistabile qui. Buona lettura!

«Li avete finiti i compiti? Non ti dovrai mica portare i quaderni dalla nonna?»

Mia madre controllò velocemente quello che avevo fatto.

«Bravi! Avete svolto tutto bene, senza errori. Mi viene un dubbio: siete ancora capaci a fare i compiti ognuno per conto proprio?»

Sorrise. Già. Mia madre. La mia amicizia con Elena aveva fatto trovare un’amica anche a lei. Paola, così si chiamava la mamma della mia compagna di banco e di giochi, era sua coscritta. Una donna minuta, graziosa, ma con una quantità di energia in corpo da renderla simile ad un moto perpetuo. Anche loro si erano incontrate, come noi, il primo giorno di scuola, all’uscita. Noi due schizzammo fuori dal portone velocissimi e ci dirigemmo dove erano radunate tutte le mamme.

«Allora ciao! Ci vediamo domani!»

«Sì, a domani!»

Quasi per imitarci, si erano salutate anche loro, scambiandosi un «Buongiorno!» di circostanza, detto dietro ad un mezzo sorriso. Con il trasloco nel nuovo paese io avevo perso tutti gli amici, ma per un bambino è senza dubbio facile fare nuove conoscenze. Mio padre avrebbe potuto trovare qualche persona fidata nell’ambito del lavoro, ma mia madre. Sempre in casa, tranne nei momenti nei quali andava a fare la spesa, sempre sola. Aveva conosciuto superficialmente i vicini di casa, ma ricrearsi un giro d’amicizie alla soglia dei trent’anni sarebbe stato molto difficile. In suo aiuto venne la mia amicizia con Elena. Man mano che i giorni di scuola passavano, Paola e la mamma cominciavano a conoscersi sempre meglio. Dopo un paio di settimane cominciarono a darsi appuntamento per venire a prenderci e anche al mattino, quando noi bambini entravamo per il supplizio quotidiano, si incontravano e andavano a fare spesa insieme. Si era creato un doppio filo, tra le nostre due famiglie. Un legame che, proprio perché doppio, avrebbe dato maggiori gioie, ma anche maggiori dolori. Rivedere quelle cose alla luce di ciò che sarebbe accaduto mi porta solo un gran nodo alla gola. Mi accorgo solo ora di aver deluso due madri, due persone che, seppur diverse, seppur con modi diversi di dimostrarlo, mi hanno voluto bene. Se il legame tra una madre e un figlio è indissolubile, qualunque cosa succeda, quello tra persone che da estranee diventano molto intime può cambiare fino a diventare qualcosa di spaventoso, del quale avere paura. Una farfalla è appoggiata sul vetro della mia finestra. L’estate è nel pieno e nel paese vicino c’è la fiera. Quante ne ho viste. Quante volte sono andato a divertirmi per tutto il pomeriggio e per tutta la sera del Martedì. I divertimenti preferiti sono cresciuti con me. Dalla giostrina con le barchette e una piscinetta che faceva da lago alla piccola calcinculo, dagli autoscontri alla sala giochi, dai giri per vedere le bancarelle dei giocattoli e degli animaletti a quelli per scoprire qualche cassetta di musica a prezzo speciale. Ogni anno tutto così uguale, tutto così diverso. Anche perché diversi erano, di volta in volta, i nostri interessi. La prima volta che andai fu nell’estate nella quale conobbi il fiume. Ricordo che Elena era venuta a mangiare da me e che subito dopo pranzo ci saremmo ritrovati, insieme alla mia, con sua madre. Mangiammo tutto, anche gli odiati spinaci, pur di non perdere il pullman.

«Mamma, tu vai pure a cambiarti. I piatti dal tavolo li togliamo noi!»

In cinque minuti il tavolo fu completamente liberato da qualunque stoviglia lo occupasse. Non contenti, ci mettemmo uno di fronte all’altra, due lembi della tovaglia per ognuno, e la piegammo a regola d’arte, riponendola poi nel cassetto della credenza. Elena si mise addirittura a ramazzare il pavimento mentre io cercavo la paletta con la quale raccogliere la spazzatura. Per lei non era una cosa nuova, quella festa, ma fu presa dalla mia stessa agitazione.

«Sai, questo è il primo anno che vado con un mio amico alla fiera. Gli altri anni andavo sempre con mia cugina.», mi disse con aria serissima.

«Ma come? Tua cugina non ti è amica?»

«Non come te!»

Mentre le chiavi terminavano i loro giri nella serratura, noi eravamo già fuori, in pieno sole, per mano. Sua madre ci aspettava davanti alla chiesa, ma noi, terrorizzati dall’idea di essere in ritardo, non ci fermammo nemmeno e la salutammo frettolosamente.

«Dove scappate, voi due?»

«Stiamo andando alla fermata, così se arriva il pullman ci vede e si ferma!»

Risero di gusto, lei e mia madre, giunta nel frattempo, incrementando il passo. Nei cinque minuti, non furono di più, nei quali fummo costretti ad aspettare, ripetemmo fino alla nausea la stessa frase.

«Ecco! Per colpa vostra che andavate piano l’abbiamo perso!»

Non smettemmo di angosciarle nemmeno quando ci minacciarono di riportarci a casa, ma la nostra gioia fu grande quando vedemmo apparire dal curvone la sagoma colorata della corriera.

«Eccolo! Eccolo!»

Non appena la porta si aprì salimmo entrambi, rischiando di inciamparci, per sederci nei due posti davanti, quelli quasi di fianco all’autista. Le nostre mamme presero posto subito dietro di lui, ma per noi non aveva poi molta importanza.

«Sai, ci sono tante giostre, tanti giochi, tanti banchetti colorati. È tutto bellissimo e ci si diverte un sacco! Pensa che l’anno scorso mia cugina ha vinto due pesciolini!»

«Davvero? Chissà, magari ci riusciamo anche noi!»

Furono dieci minuti colmi di congetture e progetti, tenendo gli occhi fissi al finestrino per cercare di capire quando sarebbe stato il momento di scendere. La porta a soffietto finalmente si aprì all’ombra del vialone e con un salto scendemmo dall’ultimo gradino.

«Adesso dateci mano perché dovremo attraversare almeno un paio di volte.»

Formavamo una bella catena umana, con le madri agli estremi e noi due al centro. Ci vollero altri dieci minuti per arrivare nella grande piazza, ma ne valse veramente la pena.

«Mamma, guarda! Ci sono anche i palloncini!»

Passammo davanti ad un piccolo banco e vidi che un bambino poco più grande di noi se ne allontanava con uno stecco sul quale c’era una nuvola.

«Guarda quello là! Sta mangiando del cotone!»

«Macché cotone! Quello è zucchero filato! È buonissimo e dolcissimo! Mamma, vero che ci compri lo zucchero filato?»

Paola mise mano al portafogli e ci accontentò. Seguivo i movimenti esperti di quel signore coi grandi baffi mentre lo stecchetto che aveva in mano prendeva sempre più la forma di quello che avevo appena visto. Per me era tutto nuovo, tutto straordinario. Elena mi fece da cicerone per tutto il pomeriggio, facendomi vedere tutto quello che lei aveva già provato negli anni precedenti. La prima giostra sulla quale mettemmo piede fu quella coi cavallini. Mi sentivo strano a cavalcare un destriero freddo e lucido, ma i movimenti ai quali ero sottoposto mi piacevano, mi facevano sentire libero, come un cowboy. Girammo due o tre volte, non ricordo bene, e ci allontanammo malvolentieri.

«Se volete possiamo restare qui anche tutto il pomeriggio, ma se spendete tutti i soldi qui non ne avrete poi più per le altre!»

Mia madre aveva ragione, ma eravamo comunque dispiaciuti. Un po’ imbronciati ci avviammo verso i banchetti dove si poteva giocare. C’era il tiro col fucile ad aria compressa, il gioco dei tappi e, finalmente, il gioco con le palline grazie al quale si potevano vincere gli animaletti. D’un tratto la tristezza se ne andò, lasciando posto soltanto all’eccitazione.

«Mamma! Vogliamo giocare a questo!»

Paola ci guardò sorridendo, mentre mia madre estrasse dalla borsetta il portamonete.

«Va bene, va bene! Cercate solo di non vincere qualche bestia strana. Sai benissimo che tuo padre farebbe già fatica a convivere con un pesce rosso!»

Mentre loro due parlavano, dietro di noi, Elena e io ci sporgevamo dalla transenna che delimitava la linea di tiro. Non ricordo quante palline da ping-pong avessimo a disposizione. Cominciò lei. Il suo tiro fece rimbalzare per quattro volte la pallina sui piccoli recipienti per pesci che erano disposti in bell’ordine prima di farle terminare la corsa a terra.

«Che sfortuna!»

Il mio sguardo, fino a quel momento concentrato sui bersagli, si distolse un attimo.

«Guarda! Guarda là! Una scimmietta!»

«È vero! C’è una scimmietta viva! Guarda, mamma!»

Le nostre madri si girarono ad osservare la bestiola distrattamente, mentre noi ci agitavamo.

«Signore? Come facciamo a vincere la scimmietta?»

«Dovete riuscire a fare centro in quel recipiente rosso!»

«Forza, Dario, cerchiamo di farcela!»

Ci mettemmo d’impegno. Tirammo una pallina, poi un’altra, poi un’altra ancora. Riuscimmo a vincere una coppia di pesciolini tropicali, ma non eravamo per niente soddisfatti. Mancavano ancora pochi tiri. Elena cercò di sporgersi un po’ di più e, quasi cadendo, lasciò partire una parabola che portò la pallina a rimbalzare su un grosso acquario e a terminare la sua corsa nel recipiente colorato di rosso.

«Sììì! Bravissima! Ce l’hai fatta! Mamma, Paola! Abbiamo vinto la scimmietta!»

La reazione non fu la medesima che avevamo avuto noi.

«Non penserete mica di portarla sul serio a casa, vero?»

Lo pensavamo eccome. Si vedeva benissimo che, consegnandoci l’animaletto, l’anziano signore che ci aveva fino ad allora guardati con simpatia stava soffrendo. Noi due no. Eravamo il ritratto della felicità. La nostra fiera poteva anche concludersi lì. Non avevamo occhi che per la nostra scimmietta, per quella che già consideravamo la nostra mascotte.

«E adesso chi lo sente, mio marito?»

Mia madre non sapeva darsi pace, mentre Paola ridacchiava.

«Io e Dario abbiamo deciso che la terremo un mese ciascuno.»

Smise di ridacchiare e ripeté la frase detta non più tardi di un paio di secondi prima da mia madre. L’autista del pullman ci guardò stupito, mentre salivamo i gradoni con la scimmietta sulla mia spalla. Ci fece pagare solo quattro biglietti, sorridendo alle nostre madri con aria comprensiva e bonaria.

«La chiameremo Goldrake!»

«No, a me piace di più Candy Candy!»

L’influenza dei cartoni animati fu molto forte nella scelta del nome. Alla fine la spuntò lei.

«Va bene. La chiameremo Candy. Non Candy Candy: mi sembra troppo lungo!»

«Hai ragione. Candy andrà benissimo. Cominci tu a tenerla?»

«Va bene!», dissi io con entusiasmo. Mio padre rischiò lo svenimento, ma fu favorevolmente impressionato dalla simpatia di Candy e non oppose troppa resistenza. Mese dopo mese quella scimmia fu testimone di tanti momenti belli, di tanti giochi, di tante avventure. Anche di quel maledetto giorno. Era lì quando rientrai e pianse insieme a me, o almeno così mi sembrò di vedere. Gli animali, a volte, sono anche più sensibili delle persone. Nelle due settimane seguenti si rifiutò di mangiare, di bere, di vivere. Si lasciò morire di fame, di dolore. Forse avrei fatto meglio anche io a lasciarmi morire. Avrei fatto soffrire molte meno persone, avrei conservato la mia dignità. Il dolore che provo ora è enorme, anche più grande di quello che provai allora. Gli avvenimenti mi sono precipitati addosso quando non avevo ancora la forza per poterli reggere. Mi hanno schiacciato una volta, poi una seconda, ma non lascerò che ce ne sia una terza. Questa volta sarò io a schiacciare il destino, a farlo andare come voglio io. La vita ti rende cinico, cattivo, insensibile agli altrui bisogni. La lingua può diventare un’arma terribile, può ferire, può persino… può persino uccidere. La paura mi accompagna nella mia decisione, come altre volte aveva fatto durante la mia infanzia. Avevamo otto anni. Ci eravamo messi in testa di imparare a nuotare e andammo decisi in piscina, agli ordini di un muscoloso e simpaticissimo istruttore. L’acqua ci era decisamente familiare. Andavamo al fiume ogni giorno, ci bagnavamo fin sopra il ginocchio, ma non avevamo mai avuto il coraggio di buttarci, di provare ad imparare da soli. Le piastrelle azzurre della pavimentazione donavano all’acqua della piscina il classico colore che ogni bambino immagina. Dopo gli esercizi di riscaldamento venne finalmente il momento di cominciare ad imparare. Ci furono messi addosso due braccioli. Mi stringevano le braccia in maniera piuttosto antipatica, dandomi una sensazione di prigionia. Non so cosa non mi piacesse, di quel posto. La giornata era semplicemente radiosa e tutto pareva bello. A me mancavano gli alberi, quegli alberi che al fiume ci riparavano dal sole troppo forte, e i pesciolini, che sembravano volerci mangiare le caviglie se soltanto ci fermavamo un momento con le piante dei piedi ben ferme nella limaccia. Ad un tratto avevo paura. L’acqua non mi sembrava più un’amica. Era un’acqua diversa, forse cattiva, da temere. Entrai con diffidenza, ma ancora una volta Elena mi venne incontro, prendendomi per mano, sorridendomi. La diffidenza sparì d’un tratto, ma il disagio rimase per tutti e due i corsi di nuoto che frequentammo. Prima del termine del primo corso, comunque, avevamo già ottenuto ottimi risultati. L’istruttore si convinse che era giunto il momento di mandarci a nuotare nel fondone, dove non si toccava. Quattro settimane, tutto il mese di luglio, ma finalmente avevamo le basi per vivere il fiume, per sentirlo ancora più nostro, per avere un rapporto ancora più intimo con lui. Non aspettammo di finire il corso. Al mattino eravamo in piscina, al pomeriggio, dopo i compiti, alla nicchia. Senza braccioli, senza salvagente. Semplicemente liberi di fare quello che più ci andava. Le sensazioni che potevamo vivere in quel luogo non le avrei più vissute da nessun’altra parte, con nessun’altra persona. Il fumo, denso, della sigaretta mi copre la vista, mi fa lacrimare gli occhi, quasi non ci fossi abituato. Eppure ho nei polmoni tanto catrame da asfaltare il vialetto davanti a casa mia. Mi sento stupido, come stupidi mi sembravano i fumatori allora.

© Roberto Grenna – Riproduzione vietata

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