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Non ricordo, con precisione, quando scrissi l’incipit del mio primo romanzo “Il fiume”, la cui copertina è immagine di copertina anche di questo blog. Le due frasi che potete leggere anche sulla home del blog: “Ci sono giornate nelle quali la voglia di combattere la vita per portarla su binari migliori si affievolisce fino a scomparire. Allora, e solo allora, ti puoi accorgere di quanto male una persona possa volere a se stessa.”

L’unica certezza che ho, è che stavo ancora frequentando le superiori. Molto probabilmente posso ricollocarle tra la terza e la quarta, quando avevo preso l’abitudine di scrivere su un quaderno (rigorosamente ad anelli, come si utilizzavano allora) brevi frasi, pensieri, in alcuni casi vere e proprie poesie. Nulla a che vedere con i poeti veri, sia ben chiaro. Sono brevi componimenti in versi sciolti, che hanno visto la luce parallelamente al romanzo – qualcuna anche molto dopo.

Ho sempre amato leggere. Leggevo (e leggo, quando il tempo me lo consente) di tutto, dai classici agli scrittori moderni, dai libri ai fumetti – che, attenzione bene, sono un’arte al pari di tutte le altre – alle riviste. Virando negli ultimi anni, questo è vero, verso la nera, gli assassini seriali, le devianze di fronte alle quali ci troviamo nella odierna civiltà.

Dopo la terza media – alle medie non è che amassi particolarmente scrivere, né i temi, per i quali le valutazioni non erano mai particolarmente generose a causa della scarsa fantasia – incontrai due Docenti (di quelle con la D maiuscola) di Lettere che mi fecero scoprire il piacere di scrivere, di esprimermi, di lavorare in maniera critica su ciò che leggevo, motivando e creandomi una mia opinione che avesse solide basi. Insomma, scatenando quella parte di me rimasta, fino ad allora, silente, dormiente, ben nascosta.

Non nego, e non lo farò mai, che il mio primo amore è stato tutto ciò che poteva far capo alle Scienze, ivi comprese la Matematica, l’Informatica, la Fisica (anche se con maggiore “diffidenza”, diciamo così), ma grazie a loro – e per merito delle basi ricevute dalla mia Maestra delle elementari – scoprii che quella passione per la lettura “casuale” poteva essere valorizzata e razionalizzata, aiutando mi a crescere e ad aprire i miei orizzonti.

Bene. In quel periodo così importante per la crescita di ciascun individuo, imparai che scrivere era un salvavita, un’attività che definire terapeutica è sminuirne il valore. Imparai che avevo tante cose da dire, tante storie da raccontare e che se anche solo a una persona avessero potuto interessare, allora sarebbe valsa la pena di raccontarle.

I tempi di gestazione de “Il fiume” furono parecchio lunghi. Lo ultimai, mi pare, durante l’ultimo anno di università. Avevo l’abitudine, la sera, di scrivere qualche paginetta della storia, per poi stamparla e darla da leggere alla mia fidanzata dell’epoca, che mai mi disse di smettere di scrivere, ma non mi diede neppure mai commenti, pareri o impressioni di un certo spessore.

Ricordo ancora quando scrissi l’ultima pagina di quella storia, così forte, così legata a un preciso periodo della vita di una persona – quello che porta all’adultità e al momento di prendersi il proprio posto nel mondo dei “grandi”. La scrissi con un crescente magone che saliva dallo stomaco. Le ultime righe le vidi a malapena, gli occhi pieni di lacrime. Una sorta di Stanislavskij dello scrittore, di immedesimazione nei propri personaggi.

Si dice che nel primo romanzo ci sia molto di chi scrive. Posso solo dire che in ogni protagonista delle mie storie c’è un pezzo di me. Il che non so se sia un bene o un male…

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