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La prima volta che mi sono sentito definire “ruvido” sono quasi rimasto male.
Sì, perché è un aggettivo che non avevo mai accostato a me stesso e al mio modo di agire.
Poi – perché ormai sono passati anni da quel giorno – ci ho fatto un po’ la bocca, a questo termine. Ce l’ho fatta, la bocca, perché in realtà non è per nulla un termine dispregiativo. Ciò che è ruvido, solitamente, viene utilizzato per rimuovere ciò che è rovinato o che non serve più.
La carta a vetro, per esempio.
Serve a rimuovere la vernice vecchia per stendere quella nuova.
Serve per togliere, sotto forma di lime, lo smalto usurato da sostituire.
Serve per lisciare altre superfici ruvide.
Serve per togliere lo sporco e le impurità.
Serve per creare un livello laddove ci sia un dislivello.
Serve per raschiare ciò che, in quel momento, è “male”.
Serve, insomma e in un certo senso, a fare pulizia prima di qualcosa di nuovo e, se possibile di migliore e più bello rispetto a ciò che c’era.
Serve per ridare vita a oggetti che avevano perso brillantezza e utilizzo.
Serve per creare armonia laddove non ci sia più.
Insomma, un sacco di belle cose.
Certo, se la carta vetro viene utilizzata in bagno al posto di quella igienica, proprio piacevole non è.
Ma la colpa non è la su, bensì di chi la usa.
“Ruvido”… insomma, mi piace… rende perfettamente l’idea di ciò che sono e di ciò che voglio fare.
Fa capire immediatamente che, se usato nella giusta maniera, qualcosa di ruvido può solo produrre cose migliori di quelle che ci sono.
O, almeno, diverse.
Sì… mi piace essere “ruvido”…

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