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Sono sempre più convinto che le persone non ascoltino. Oppure che lo facciano solo per controbattere e non per capire ciò che l’atra persona voglia dire, le argomentazioni che voglia portare, i pensieri che voglia esporre.
Svolgo un lavoro che prevede, oltre a una serie di conoscenze e competenze di tipo amministrativo, didattico e legale, la comunicazione con l’altro/a. Non come soluzione ai problemi. O, meglio, non solo.
In una realtà complessa com’è la scuola di oggi (e chi non ne è completamente addentro non riesce, il più delle volte, a farsi un’idea di quale e quanta sia) i problemi sono all’ordine del giorno. La volontà di trovare una soluzione equa e non egoistica, no.
Punto uno: generalmente si parla per lamentarsi di qualcosa. Lecito. Più che lecito. Ma il più delle volte, cieco.
“Io ho questo problema e tu me lo devi risolvere!”: la pretesa è sempre quella. L’acchito, però, è quello di chi vuole semplicemente togliersi un mal di pancia, generalmente ignorando o volendo ignorare la complessità delle cose.
Punto due: per trovare la soluzione di un problema, tutti i dati devono essere forniti nella maniera più oggettiva possibile. Senza “rumori di fondo” (cioè informazioni che non concorrono alla ricerca di una soluzione) e senza protagonismi.
“Io… io… io… a me… per me…”: in generale, le richieste hanno sempre questo soggetto. Più raramente il “noi”, ma la sostanza cambia di poco.
Punto terzo: chi riceve una richiesta di “aiuto”, chiamiamola così, deve capire. Entrare nel vivo del problema. Avere a disposizione più dati possibili per abbozzare – spesso azzardare – una soluzione o un aiuto.
“No, perché nel millenovecentoventi è successo… una cosa che non c’entra niente,,, sì, ho capito che non c’entra, ma mi ascolti…”
Punto quarto: la comunicazione avviene tra una stazione emittente e una ricevente, che spesso cambiano ruolo.
Ma cosa avviene se una stazione emette solamente e, quando deve ricevere, si chiude a riccio, il più delle volte non rispondendo alle domande che vengono poste? Accade che la comunicazione diventa unidirezionale, cioè senza contraddittorio e senza la necessaria lucidità a dirimere le questioni nel loro intimo e nella loro reale forma.
“Sì, ma… sì, però…”: sono gli incipit più utilizzati quando si è sentito, ma non ascoltato quanto detto dall’altra persona.
Beh… non credo di dire (anzi, scrivere) nulla di sbagliato, mettendo in evidenza il fatto che… così non si va da nessuna parte. Sembra che il mondo sia popolato solamente da persone che hanno un sacco di cose da dire e alle quali non interessi minimamente ciò che l’altra persona argomenta.
E allora mi domando: ma come si può cercare di vivere serenamente con gli altri se il primo – e talvolta unico – istinto è quello di non rendersi disponibili non solo al cambiamento, ma nemmeno all’ascolto?
Per parte mia cercherò sempre di porgere l’orecchio per ascoltare – non solo sentire – chi mi si para davanti.
Ma così è tutto molto pià difficile…

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