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Ecco qualche altra pagina del romanzo “Il fiume”, che è acquistabile qui. Con queste righe giungiamo all’incirca a metà del romanzo. Buona lettura!

«Prendo la bicicletta e andiamo.»

«Va bene! Io ti aspetto qui.»

Mi sbrigai a tirare fuori il mio mezzo dal garage e la raggiunsi. Ricordo tutto come se fosse successo ieri, o, meglio, stamattina. Certe cose te le porti dietro finché vivi. Già. Proprio finché vivi. Non esiste altro modo che la morte per poterle dimenticare, per passare in una dimensione dove l’oblio sia padrone dei tuoi pensieri, di ciò che rimane dei tuoi ricordi, della tua coscienza, dei sentimenti che hai provato e che porti con te in un angolo rimasto integro di un cuore ormai indurito, provato, incapace di battere per anima viva. La morte ti libera da ogni tuo male, ti riporta a quello stato nel quale eri prima di nascere. Non ti guarda in faccia prima di prenderti. Ti prende e basta. Non serve pregare, disperarsi, piangere. Una volta che la vittima è scelta, non torna indietro. No. Non ho paura della morte. Non più. Mi ha già sfiorato troppe volte, senza mai incocciare in me. Peccato. Il pomeriggio era veramente stupendo, radioso. Una sola, piccola nuvola se ne stava in un angolo del cielo, quasi a non voler disturbare quell’esplosione d’estate. Pedalammo alla volta della nicchia, restando stranamente in silenzio. La vedevo tesa, quasi come se avesse paura di qualcosa. Penso di aver fatto anche io la medesima impressione a lei. Avevo pensato fino a quel momento alle parole da dirle, o almeno a quelle con le quali iniziare il discorso. Niente: avevo il vuoto più assoluto, in testa. Lasciammo le biciclette al solito posto. Ci addentrammo tra gli alberi, io davanti, lei subito dietro. La nicchia non era completamente riparata dagli alberi. Un pezzetto di spiaggia, quanto bastava per i nostri due asciugamani, rimaneva per tutto il pomeriggio al sole. Ci posizionammo proprio in quel punto, venendo incontro al proposito espresso quella mattina.

«Hai il costume, sotto?»

«Sì! Adesso tolgo la maglietta e i pantaloncini e mi sdraio a prendere un po’ di sole.»

«Anche io. Sarebbe un peccato non sfruttare una giornata come questa!»

«Già!»

Il fiume scorreva placido, proprio come dovrebbe scorrere in estate. L’acqua, limpida, invitava ad un tuffo che, fino a quel momento, non era nelle nostre intenzioni.

«Allora?», disse, mettendosi a sedere, le gambe portate al torace e cinte dalle braccia.

«Eh, sembra facile! Da dove cominciamo?»

Mi sedetti anche io.

«Dal fatto che non mi sembri più tu. Che cosa ti sta succedendo, Dario?»

Restai in silenzio per qualche attimo, abbassando gli occhi.

«Credo che sia arrivato anche per me quel periodo stupido nel quale i ragazzi crescono e… cambiano!»

«Non prendiamoci in giro, dai! Un conto è l’adolescenza con tutti i suoi problemi, un conto è cambiare come dal giorno alla notte! Secondo me c’è qualche motivo più profondo.»

Ero veramente in trappola. Non riuscivo a capire quanto lei già avesse intuito sui motivi che mi spingevano a comportarmi in quel modo e la cosa mi creò ulteriori problemi. Non capivo veramente più niente. In un attimo mi ritrovai in testa, tutte insieme, le riflessioni di quegli ultimi mesi sull’amicizia, sull’amore, sui nostri amici, felici in coppia, sulle sue possibili reazioni.

«Quale?»

Non trovai di meglio da fare che rispondere con una domanda. Non si sarebbe arrabbiata, anche se quella cosa le avrebbe dato fastidio. La vedevo veramente determinata ad arrivare nel profondo del mio animo e non si sarebbe arresa nemmeno davanti alle cose che la infastidivano maggiormente.

«Cosa intendi, scusa?»

«Ti ho chiesto quale sia, secondo te, il motivo per il quale io mi stia comportando in questo modo.»

Restò per un momento anche lei senza argomenti, come me pochi istanti prima.

«Non so. O, meglio, io la mia idea me la sono fatta, ma vorrei che fossi tu ad aprirti. E poi…»

«E poi, cosa?»

«Niente. È solo che non saprei neppure io da che parte iniziare a parlartene. Sono solo impressioni, valutazioni di una persona che ti conosce bene. O, almeno, che crede di conoscerti bene.»

Abbassò lo sguardo. Non mi pareva seccata. Un po’ in imbarazzo, ma non seccata. Mi feci coraggio.

«Se vuoi che sia io a parlare per primo, beh, eccomi qua!»

Presi un respiro profondo.

«Dunque. Non so, di preciso, quando sia cominciato.»

«“Cominciato” cosa?»

«Questo mio modo di sentirmi, o, meglio, di sentirti.»

«Spiegati meglio, per cortesia! Non ci sto capendo niente!»

«Eh, pare facile!»

Un altro respiro profondo. Elena mi rivolse uno sguardo che mostrava un misto di curiosità e di comprensione, di compartecipazione a quel momento per me così difficile.

«Diciamo che, da qualche tempo, non chiedermi quanto perché, di preciso, non lo so nemmeno io, dicevo, da qualche tempo sento che… che ciò che provo nei tuoi confronti sta… cambiando! Ecco! Diciamo che sta cambiando!»

Restò perplessa, ma non lasciò trapelare nessun altro tipo di reazione. Dio solo sa quanto avrei avuto bisogno, in quel momento, di un suo gesto, di una sua occhiata complice. Di qualcosa, insomma, in grado di darmi quel coraggio che non avevo assolutamente.

«Vale a dire?»

Quella domanda mi fece cadere ancora di più nello sconforto. Possibile che non capisse? O, forse, era solamente un modo gentile per consigliarmi di cambiare discorso, di non andare oltre? Non capivo. La mia mente, così come lo erano i miei riflessi, era totalmente annebbiata. Feci un’altra lunga pausa.

«Ti prego, continua! Voglio arrivare a capire!»

Si fece piuttosto incalzante.

«Ecco, quello che volevo farti capire… quello che volevo dirti, insomma, è che…»

Un tonfo sordo mi distrasse, impedendomi di continuare. Sul ponte stava passando un camion carico di pietre. Una di queste, evidentemente, era caduta dal cassone. Le onde concentriche che si allontanavano dal punto nel quale l’acqua aveva accolto quel nuovo ospite mi suggerirono il prosieguo del discorso.

«Vedi quelle onde?»

«Certo! Come se non avessi mai visto un sasso cadere in acqua!»

Sorrise. Forse per farmi coraggio, forse perché non riusciva a capire dove io volessi andare a parare.

«Beh, si allargano esattamente come ciò che provo per te si sta allargando ogni giorno di più.»

Si stranì. Non poteva non aver capito. Le lasciai il tempo di riordinare le idee. Fu lei a prendere nuovamente la parola. «Cioè, tu vorresti dirmi che?»

«Che mi sono innamorato di te!»

Finalmente l’avevo detto! Finalmente quelle parole che fino ad un attimo prima ero solo riuscito a pensare erano uscite dalla mia bocca in sua presenza. Stavo male, ma mi sentivo più leggero di un quintale. La guardai. Il suo sguardo era come perso nell’acqua placida che scorreva. Non volli aggiungere altro, anche perché fui preso dal panico più totale. Un panico che non avrei mai più provato in vita mia.

«Certo che questa è proprio grossa!»

Disse queste parole con un sorriso incredulo.

«Se non ci credi, te lo posso ripetere! Io ti amo, Elena! Mi sono innamorato di te! Lo capisci?»

Ormai riuscivo a dirlo. Non riuscivo, però, a capire cosa le stesse passando per la testa. Volli dirle tutto ciò che mi stava passando per la testa.

«Ho sempre avuto paura di dirtelo, di perderti, di non poter più avere con te quel rapporto che ho avuto dal giorno nel quale ci siamo conosciuti. È da parecchio che sento crescere in me un sentimento più forte rispetto all’amicizia. Dopo Firenze, poi, non ho più avuto dubbi! O, meglio, ho capito di amarti veramente, ma i dubbi mi sono rimasti! Dirtelo? Non dirtelo? Fartelo capire? Fare finta di niente per mantenere almeno l’amicizia? Ti auguro di non trovarti mai nella situazione nella quale mi sono trovato io in questi ultimi tempi!»

Avrei voluto raccontarle ogni mio singolo pensiero di quei giorni di gita, avrei voluto prenderle la mano, poi abbracciarla, stringerla forte come mai avevo fatto, ma… non riuscivo a muovere un solo muscolo diverso dalla lingua. Ero semplicemente terrorizzato dal suo silenzio e dalla sua espressione assente.

«Mi hai sentito?»

«Sì! Ho sentito tutto! Ora mi spiego tante tue stranezze, tante tue frasi buttate lì, tante tue domande bizzarre! Tu sei matto!»

Non voleva essere un insulto o un apprezzamento negativo. Lo disse con quella stessa aria con la quale mi aveva ringraziato per il topolino, anni prima.

«Senti…»

«Sì?»

«Ormai sono uscito totalmente allo scoperto. Sai, mi piacerebbe sapere se…»

Non mi lasciò terminare la frase.

«Adesso capisco anche tutte le botte che ti sei preso da Carlo! Oh, mamma! Ho bisogno di rinfrescarmi un momento! Aspettami qui!»

La vidi alzarsi, barcollare come se avesse bevuto, poi mettersi nuovamente diritta ed elegante come sapeva essere. Si diresse verso il fiume, prima lentamente, poi di corsa. La vidi diventare un’ombra, contro sole. Si tuffò in acqua, allontanandosi in un baleno dalla riva.

«Elena! Aspetta! Abbiamo appena mangiato e poi…»

«Non ti preoccupare!», mi gridò.

«Solo una rinfrescata e arrivo! Tu, intanto, stenditi un momento! Ne hai bisogno!»

Portai una mano a coprire gli occhi. La luce del sole mi faceva male, così decisi di raccogliere gli occhiali che avevo appoggiato a terra. Mi appoggiai sul gomito destro, in preda ad un forte giramento di testa. Non so quanto tempo passò prima che rialzassi la testa. Mi girai verso il fiume. Non appena gli occhi si furono abituati alla diversa luce, mi accorsi che non c’era più. La sua sagoma era sparita. Vidi uscire violentemente dall’acqua prima un braccio, poi l’altro. Un grido strozzato, poi più nulla. Mi tuffai immediatamente. Urlavo il suo nome, ma le mie orecchie non sentivano più niente. Tutto, intorno a me, pareva ovattato, avvolto da una luce biancastra, tipica dei sogni, o, meglio, degli incubi. Mi sento male ancora adesso al solo pensarci. Passarono pochissimi secondi dal mio tuffo al momento nel quale giunsi dove credevo che fosse. Non c’era più. Presi più fiato possibile e cominciai ad immergermi per cercarla. Mi sentii trascinare verso il basso. Non capii. Poteva essere lei che cercava di risalire, di trovare un appiglio. Andai ancora più in profondità, ma non la vidi. Il cuore mi scoppiava nel petto. Rischiai di soffocare, cercando di stare sotto il più possibile. Tornai su per respirare due, tre volte, senza mai riuscire a scorgerla. Non ragionavo più. Non riuscivo ad organizzarmi razionalmente. Feci altre tre o quattro immersioni. L’acqua, intorno, si faceva sempre più torbida. Fu un caso, o forse solo la mia disperazione, a farmi imbattere nella sua mano. La presi e la trascinai in superficie. Non avevo più forze, ma la trascinai con me a riva. Non so. Non riesco ad andare avanti più di così. Il ricordo mi fa troppo male, mi fa soffrire troppo. L’unica… l’unica che io abbia mai amato. Che abbia mai creduto d’amare. Provai di tutto. Non respirava più. Le palpebre chiuse, un piccolo spiraglio tra le labbra, il corpo immobile, nessun polso. L’avevo persa. Prima ancora di sapere se l’avevo conquistata. Persa, per sempre. Non lo capii subito. La presi in braccio e cominciai a correre come un pazzo attraverso il boschetto. Giunsi al ponte, proprio mentre un camion stava passando. L’autista frenò immediatamente. Scese dal suo mezzo.

«Cosa è successo, ragazzo? Dimmi!»

Mi mancava il fiato. Non riuscivo a parlare.

«Cos’ha questa ragazza?»

Gli bastò guardarla in faccia. Bestemmiò come mai avevo udito fare e mi strappò Elena dalle braccia. La coricò sul sedile del camion e fece salire anche me. Con il CB che aveva all’interno dell’abitacolo avvisò i suoi amici della situazione, invitandoli a chiamare un’ambulanza. Non vollero lasciarmi salire. Seguii la Croce Rossa sul camion di quell’uomo che si mostrava ancora più spaventato di me.

«Coraggio, ragazzo, coraggio! Vedrai che la tua amica ce la farà!»

Non capivo più niente. Non so chi avvisò Paola, Mauro e i miei. Arrivarono pochi minuti dopo di me.

«Dario! Dario! Cosa è successo? Dimmi, ti prego! Elena sta bene?»

Povera Paola! Le scoppiai a piangere tra le braccia!

«Dario! Mio Dio, Dario! Ti prego! Oh, Signore! Fai che non sia vero! Fai che non sia vero!»

Mauro la sostenne affinché non cadesse. Io mi inginocchiai ai loro piedi.

«È stata tutta colpa mia! Solo mia!»

Le infermiere dovettero somministrarle dei calmanti, dei sedativi. Elena non c’era più. Era morta. Ancor prima che arrivasse l’ambulanza. Mi rannicchiai a terra, singhiozzando convulsamente. Non mi accorsi nemmeno che mio padre e mia madre mi si erano fatti intorno, cercando di rialzarmi.

«L’ho persa! L’ho persa per sempre! No! Noooooooooooooooooo!»

Piansi. Piansi come non avevo mai pianto. Tutti i miei sogni, tutte le cose che avrei voluto fare insieme a lei. Tutto distrutto. Tutto morto, insieme a lei. Nel mio egoismo, poi, restavo senza di lei, senza una sua risposta, senza sapere. Non so. Non riesco a ricordare lucidamente quei momenti. È come se in quell’attimo, in quell’istante nel quale compresi di essere rimasto solo, fossi morto anche io. Dio! Elena! Elena! È da sei anni che te ne sei andata. È da sei anni che mi hai lasciato qui, solo, ad affrontare un mondo senza significato, a proseguire una vita senza vita. No, Elena. Ancora non capisco perché, quel giorno, fosti tu ad essere chiamata lassù. Tu: la mia dea, la mia unica ragione di vita. Mi rintanai in camera, al buio, fino al giorno nel quale ci fu la cerimonia. Ricordo solo che in quei giorni vennero i Carabinieri un sacco di volte. Mi rivolsero tante, troppe domande. Non capivo. Stavo male e loro volevano solo farmi stare peggio. Proprio non riuscivo a comprendere il loro comportamento. Era la lucidità a mancarmi. La testa. Smise di funzionare in maniera razionale in quel caldo pomeriggio di inizio estate. Smise di comprendere gli altrui bisogni. Smise di credere in un Dio che cominciai a maledire. Non poteva essere buono. Mi aveva portato via te. Mi aveva voluto testimone, compartecipe della tua morte. No. Non potevo credere all’esistenza di un Dio che potesse consentire qualcosa del genere.

© Roberto Grenna – Riproduzione vietata

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